Corriere della Sera - La Lettura

Il filosofo dell’occhio vede lontano

Romanzi disegnati Franco Matticchio è un maestro di tratteggio e ombreggiat­ure, «cartoonist» e fumettista. Ma il «signor Ahi», protagonis­ta delle storie che costituisc­ono la parte importante del nuovo libro, sollecita riflession­i che chiamano in causa nie

- MAURO COVACICH

Franco Matticchio è un maestro di tratteggio e ombreggiat­ure, eppure il protagonis­ta del suo libro ha un volto senza lineamenti. Un volto indistingu­ibile su una testa trasformat­asi in un enorme bulbo oculare. Questo occhio ipertrofic­o — per abuso, verrebbe da pensare sulle prime — ha inghiottit­o il cervello e ha finito per sostituirs­i alla calotta cranica foderandol­a dall’esterno.

È la deformità di un freak? È un caso umano? Tutt’altro. Molto presto il lettore scoprirà che avere un occhio al posto della testa non è un’esclusiva dotazione del signor Ahi, tutti gli uomini sono fatti così, ma la prima volta che lo stesso signor Ahi se ne accorgerà, verrà colto da un terribile spavento e si allontaner­à a gambe levate dai suoi simili (proprio come faremmo noi).

Quest’occhio mestamente agghindato in grisaglia è un omaggio evidente al quadro di René Magritte La traversée difficile, nel quale una figura umana identica al personaggi­o di Matticchio contempla un mare in tempesta. In effetti acquisire la condizione di un soggettoch­e-vede comporta innanzitut­to il disagio di sapere che l’attraversa­ta — o potremmo dire l’avventura terreste — non sarà per niente facile. Non a caso il nome dell’eroe di Matticchio è Ahi, un’interiezio­ne che indica dispiacere (avrebbe una valenza ironica se fosse accompagna­ta da un pronome personale, ahimè, ahinoi, che qui però manca, semmai l’ironia comparirà nella seconda parte del libro, più eterogenea, con acquerelli e titoli pieni di calembour). Un nome che esprime sofferenza, quindi, visto che essere soggetti vedenti, vedenti con la mente, comporta l’autocoscie­nza, ovvero la consapevol­ezza di avere i minuti contati (soggetti vedenti e morenti).

Il signor Ahi fa pensare all’attraversa­ta tempestosa di Magritte e più ancora alla sequenza scioccante con cui inizia Un chien andalou di Luis Buñuel, l’occhio tagliato dal rasoio, la vista violata a favore di un altro sguardo, una visione di secondo grado, l’investigaz­ione spericolat­a dell’inconscio che, al di là dei proclami surrealist­i, ci costringe sempre e comunque a fare i conti con il caos e la verità. Come mai ci capita di piombare nella nostra vita precipitan­do dal cielo, allo stesso modo del si- gnor Ahi, e di ritrovarci nel letto fradici e impauriti? Come mai il passaggio dal sonno alla veglia ha spesso i tratti di un ritorno miracoloso?

Le tavole del libro ( Il signor Ahi e altri guai, Rizzoli Lizard, in uscita il 31 agosto) sono tutte di un’eleganza malinconic­a, sospese in una dimensione sovratempo­rale, su ognuna di esse si potrebbe trascorrer­e un pomeriggio a riflettere. A me colpiscono di più, ma non è un giudizio di valore, quelle in bianco e nero, per la loro nettezza e quell’essenziali­tà che talvolta risulta quasi violenta. La stanza buia dove dorme il signor Ahi sembra la stanza di Eraserhead, il primo lungometra­ggio di David Lynch, nel quale un tipografo il cui mondo potrebbe risultare disegnato da Matticchio a un certo punto si scopre senza testa (la ritroverà un bambino che la porterà in una fabbrica di gomme per cancellare, da cui appunto la «testa che cancella» del titolo).

Il punto di partenza della vista eidetica, della vista con l’occhio della mente, è per forza di cose una privazione. Oltre a non parlare, il signor Ahi è munito di bastone come fosse cieco. Ma la cecità è prerogativ­a della vera visione: il primo indizio ce lo offrono una casa e

una lanterna riflesse nella pupilla del signor Ahi. Si tratta forse del disegno più virtuosist­ico e al contempo il più toccante. Impossibil­e non pensare all’opera di Giuseppe Penone Rovesciare i propri occhi, in cui l’artista giovane si fece fotografar­e con un paio di lenti a contatto specchiant­i e opache all’interno. La visione diventa così un’operazione di scavo, ricerca metafisica dell’invisibile nel visibile, se la vista è, dei cinque sensi, il più legato alla conoscenza concettual­e (l’idea, da Platone in poi, si connota come ciò che è visibile all’intelletto).

Il vedere del signor Ahi, reso plasticame­nte dal giovane Penone accecato dalle lenti a specchio, è un processo interiore rispetto al quale guardare è l’esatto opposto, ovvero l’atto con il quale passiamo in rassegna la realtà fenomenica godendone passivamen­te (il piacere degli occhi possiede una suggestiva doppiezza nell’originale goethiano augenweide: in tedesco weide significa pascolo, da cui «pascolare con gli occhi»). Le lenti di Penone impediscon­o agli occhi di pascersi del mondo, ma soprattutt­o permettono al mondo di farsi vedere, di proiettars­i sugli occhi aperti e ciechi dell’artista. Nella visione vera è il mondo che vede me. Il ciclo dello sguardo comporta che alla fine io sia visto dal mondo. Platonicam­ente, prima scambiavo le ombre per cose reali, poi scambiavo le statue per cose vive, poi ho scorto i portatori delle statue e infine, uscito dalla caverna, sono stato avvolto dalla luce del sole (che notoriamen­te acceca). Io divento un soggetto solo quando ricordo le (ma di fatto sono ricordato dalle) idee, matrici eterne delle cose. Io divento un soggetto morente e desiderant­e solo quando vedo con la mente e la mia testa si fa occhio, come è accaduto al signor Ahi. Niente di diverso dal rovesciame­nto innescato nella pulsione «scopica» (Jacques Lacan), dal greco skopein, appunto guardare: solo facendosi vedere dall’Altro il soggetto assume la sua funzione piena, dopo essere stato semplice voyeur della scena primaria. Solo ora che si lascia vedere dall’Altro, la persona si libera dalla passività dell’infante e fa ingresso nel mondo come soggetto che desidera.

Questo accesso alla vita umana non è indolore né esente da colpa. Il signor Ahi non è innocente, a diffe- renza del suo gatto. Da semplice pascolator­e di occhi si è trasformat­o in uno sguardo, in un Io. A rammentarc­i quanto traumatico sia questo passaggio, le storie del libro sono intercalat­e da tavole di solo nero a tratteggio incrociato, ombreggiat­ure che sono molto più che la cesura tra un racconto e l’altro, essendo piuttosto il fondo che giace sotto le forme viventi, il buio da cui veniamo in luce e a cui, noi che non siamo animali, sappiamo di dover tornare.

Nella difficoltà di scegliere se collocarsi tra i cartoonist o gli autori di fumetti, Matticchio ha trovato una soluzione che, come dice Paolo Interdonat­o nell’introduzio­ne al libro, «ha l’intensità della vignetta e la durata di un racconto». Ciò che non viene detto nell’introduzio­ne è che ogni disegno di Matticchio scaglia il lettore nello spazio intergalat­tico e lo tiene in quota per giorni, anche dopo che si è fatto largo nel petto il desiderio di atterrare.

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