Corriere della Sera - La Lettura
La vecchia si abbattè di lato con un tonfo
Il neorealismo in un villaggio bengalese
Pather Panchali ( Il lamento sul sentiero) è basato sul romanzo omonimo pubblicato nel 1929 da uno scrittore bengalese, Bibhutibhushan Bandyopadhyay. Racconta la storia di un ragazzino, figlio di un sacerdote, e degli sforzi della famiglia (padre, madre, due figli) per tirare a campare nel villaggio ancestrale.
Il film s’inserisce solo in parte nella tradizione del cinema bengalese. Negli anni Cinquanta esisteva già un’industria cinematografica bengalese a Calcutta, sebbene non certo paragonabile per dimensioni all’industria nazionale con sede a Bombay (Mumbai), quella che poi avrebbe dato origine a Bollywood. Pather Panchali è stato il primo film girato da Satyajit Ray, quando era fortemente sotto l’influenza del neorealismo italiano del dopoguerra. Il regista era abbastanza giovane e audace da decidere di realizzare il film secondo i propri standard, ignorando le modalità dell’industria cinematografica: raccolti da solo i fondi necessari (in parte negli Stati Uniti), girò il film in esterni e senza attori famosi.
Il film segue molto da vicino il romanzo, ma alcune delle scene più suggestive sono puramente cinematografiche, inventate da Ray. Penso a scene come quella della vecchia che muore, e si abbatte di lato con un tonfo; quella del serpente che scivola dentro casa; o il treno che passa sferragliando sotto gli occhi di Apu e di sua sorella. Il ragazzino che interpreta Apu era stato scelto per il suo aspetto, ma non era bravo e non sentiva la parte: anche nelle scene migliori era stato necessario fare in modo che si muovesse «naturalmente», proprio come gli animali del film che dovevano essere indotti alla «naturalezza». Il regista, che proveniva da una ricca famiglia di città, non conosceva la vita rurale e ha ambientato il film nell’incontaminato villaggio di Boral, a mezz’ora di macchina da Calcutta, pagando alcuni abitanti per interpretare i ruoli minori. Per descrivere l’effetto complessivo che voleva ottenere nel film, ha usato il verbo divagare. Ovvero ha dato, a quello che in realtà è un film rigidamente costruito, l’aria di seguire in modo erratico la storia di una famiglia del villaggio, proprio come la vita che in quel paese non seguiva alcun modello rigoroso e non si muoveva in una sola direzione e come il romanzo, dalla struttura slegata ed episodica.
Oltre ai neorealisti italiani (Rossellini, De Sica), Ray ammirava molto Akira Kurosawa — di cui vide Rashomon tre volte in tre giorni e il cui successo in Occidente lo incoraggiò a pensare che Pather Panchali potesse trovare anche un pubblico occidentale.
La prima di Pather Panchali fu a New York e solo in seguito il film fu portato a Calcutta con successo. Pur continuando a fare molte pellicole notevoli, per gli indiani Ray rimase un regista bengalese, seguito principalmente dalla sua «gente». Così, pur essendo considerato una celebrità indiana grazie alla fama internazionale di cui godeva, i suoi film non erano molto conosciuti in India, e fuori dal Bengala occidentale dovevano essere sottotitolati.
In India, parallelamente alla sua fama, aumentarono anche gli attacchi, sia dei rivali gelosi della sua reputazione in Occidente, sia della sinistra che lo accusava di ritrarre il sottosviluppo indiano (o la povertà) nel suo aspetto pittoresco senza impegnarsi in una qualunque analisi sociale. Una critica che egli stesso contribuisce involontariamente a rafforzare continuando a costruire le sue regie in chiave di umanesimo universale, cosa che negli anni Settanta suonava obsoleta. O per esempio dichiarando che le qualità del romanzo Pather Panchali che aveva più apprezzato erano «l’umanesimo, il lirismo e l’accento di verità». Nel 1980 fu attaccato anche in Parlamento per «aver tradito il suo Paese vendendo all’Occidente le immagini della miseria indiana».
Ray ha commentato diffusamente il suo lavoro, esplicitando molti aspetti interessanti della sua pratica cinematografica e parlando degli autori che lo avevano influenzato. La sua ricerca puntava a una «organicità», analoga al materialismo mistico dei film di Robert Bresson. Nel suo modo di comporre una scena, dice, le figure umane sono importanti né più né meno degli animali o degli oggetti. Tutti gli elementi vi si mescolano per creare un’atmosfera (la parola che usa è fusione); il film si esprime attraverso questa atmosfera. «I personaggi (...) sono in relazione con tutto — oggetti, eventi, piccoli dettagli (...) tutto, insieme, significa qualcosa».
Ray continua dichiarando la sua ammirazione per il fotografo Henri Cartier-Bresson e per la sua capacità di «creare una perfetta fusione di tanti elementi diversi e al tempo stesso ottenere un preciso senso della forma».
Un’ultima, doverosa osservazione sulla musica. La colonna sonora fu composta da Ravi Shankar in una sola notte. Ed è molto importante nel creare l’atmosfera del film.