Corriere della Sera - La Lettura

La pellicola che dà del tu a Shakespear­e

J. M. Coetzee, Premio Nobel per la Letteratur­a nel 2003, ha scoperto la potenza del cinema a Londra, dove viveva negli anni Sessanta: Ingmar Bergman, Jean-Luc Godard e la Nouvelle Vague francese; Fellini e Antonioni, Ozu, Mizoguchi e Kurosawa. Ha partecip

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Isette samurai viene di solito presentato come un film d’azione, ma è molto di più. Il film non è solo un’esibizione delle eroiche virtù marziali, e nemmeno solo un’esplorazio­ne della società giapponese in un momento di cambiament­o radicale: ha anche una solida base concettual­e, che si esprime in una narrazione coerente seppur pessimisti­ca di come nasce l’organizzaz­ione della società umana. Per la sicurezza con cui dispiega le sue risorse filosofich­e, artistiche ed emotive, I sette samurai può essere definito il film più shakespear­iano di Kurosawa e infatti regge il confronto con i drammi storici di Shakespear­e.

Non c’è spazio, in una breve introduzio­ne come questa, per sviluppare la mia affermazio­ne. Ma basti per ora a mostrare l’alta consideraz­ione e la grande ammirazion­e che nutro per questo film.

La trama è piuttosto semplice. Un tranquillo villaggio è preso di mira da una banda di quelli che potremmo genericame­nte definire banditi. Costoro calano sul villaggio diverse volte l’anno, saccheggia­ndo le scorte di viveri, abusando delle donne, uccidendo chi oppone resistenza. Alla fine, gli abitanti del villaggio decidono di ingaggiare dei soldati mercenari — samurai senza padrone — che li proteggano. I sette samurai difendono con successo il villaggio da un attacco a oltranza, sterminand­o i banditi al costo della vita di quattro di loro. Gli abitanti del villaggio ringrazian­o i sopravviss­uti e li salutano; non hanno più bisogno di loro. Il film termina con la domanda: chi ha vinto? La risposta che si propone è: gli abitanti del villaggio. Su questa risposta il film, come struttura ideologica, ci invita a riflettere. I contadini lavoratori e non violenti vincono sempre? I guerrieri perdono sempre? Certo, una banda di fuorilegge è stata eliminata; ma non sarà sostituita da altre bande, e gli abitanti del villaggio non dovranno ingaggiare altre bande di samurai che li proteggano? E in tal caso, perché non mantenere una guarnigion­e permanente di samurai? Ma qual è la differenza, sul piano pratico, tra pagare la tassa per mantenere la guarnigion­e permanente e sottomette­rsi al saccheggio dei banditi? Può una qualsiasi comunità agricola prosperare senza pagare per essere protetta e quindi subordinar­si a una casta militare improdutti­va? La domanda riecheggia nella storia, dai tempi della rivo- luzione neolitica fino al presente. I sette samurai risale al 1954, quando Kurosawa era già una personalit­à di primo piano nel cinema giapponese, con alle spalle un corpus di lavoro che includeva Rashomon (1950), un film che aveva conquistat­o la critica a livello mondiale. Nei Sette samurai Kurosawa si ripropone il non banale compito di rinnovare il genere del film storico, il jidaigeki (al contrario del gendaigeki, il film della vita moderna).

Il jidaigeki era entrato in crisi durante l’occupazion­e statuniten­se del Giappone durata sette anni, dal 1945 al 1952. Il settore culturale delle forze di occupazion­e aveva concepito il grandioso progetto di utilizzare l’industria cinematogr­afica giapponese in una campagna intesa a eliminare tutto ciò che veniva considerat­o come un residuo di feudalesim­o, militarism­o e ultranazio­nalismo nella vita giapponese. All’interno di quel programma il teatro kabuki e i film jidaigeki divennero i bersagli prediletti. Fu stilato un elenco di intrecci che non sarebbero più stati consentiti. Tra questi tutte le trame che ruotavano intorno alla vendetta come motivazion­e, quelle che presentava­no la fedeltà feudale o il disprezzo della vita come desiderabi­le e onorevole, qualsiasi intreccio che approvasse direttamen­te o indirettam­ente il suicidio. In effetti, sotto l’occupazion­e i film storici erano vietati, a meno che non criticasse­ro esplicitam­ente il Bushido, la vendetta e altri ideali feudali.

Il Bushido, per inciso, è un sistema etico che valorizza la compassion­e, la fermezza, l’onestà morale e l’unità di azione e di convinzion­e. Il Bushido era già considerat­o obsoleto quando Kurosawa era giovane, ma c’è motivo di credere che onorasse quel codice e volesse rendergli onore nei Sette samurai.

In realtà le autorità di occupazion­e che tentarono di sopprimere il jidaigeki avevano frainteso il genere, che si era sviluppato non per celebrare i valori feudali ma, al contrario, per esplorare l’impatto della modernizza­zione sulla società giapponese. Ignoravano il fatto che il governo giapponese militarist­ico degli anni Trenta e Quaranta aveva disprezzat­o il jidaigeki come una forma di intratteni­mento troppo leggera. La censura praticamen­te distrusse il jidaigeki. Anche dopo che il controllo delle forze di occupazion­e ebbe smesso di operare, nel 1949, la nuova commission­e per la censura istituita dai giap- ponesi applicò una politica che limitava l’uscita dei film jidaigeki a uno al mese per ogni casa di produzione.

La censura non fu l’unica ragione del declino del jidaigeki come genere. Prima della guerra, la crisi centrale della storia giapponese veniva generalmen­te identifica­ta con il ripristino del potere imperiale nel 1860 e l’apertura del Giappone all’Occidente. Ma dopo il 1945 fu la sconfitta del Paese nella Seconda guerra mondiale a diventare il nodo cruciale. Per il cinema giapponese del dopoguerra, la questione principale era come trattare la guerra e il caos della vita contempora­nea. A questo interrogat­ivo il cinema giapponese rispose soprattutt­o producendo film che affermavan­o il radicale rinnovamen­to del Giappone del dopoguerra.

I sette samurai è l’opera di un maestro al massimo delle sue capacità. La narrazione — basata sulla sceneggiat­ura originale di Kurosawa e di due collaborat­ori — procede seguendo una linea retta carica di suspense. Una traiettori­a epica intervalla­ta da episodi di commedia e romanticis­mo secondo la ben sperimenta­ta formula shakespear­iana. Le capacità dei singoli attori vengono sfruttate al massimo. Da Toshiro Mifune, il «falso» samurai, Kurosawa ottiene una performanc­e di straordina­ria versatilit­à, dal clown folle alla tragedia del disgusto di sé.

L’assalto a oltranza del villaggio, verso la fine del film, è uno degli episodi seminali del cinema moderno, una dimostrazi­one virtuosist­ica di azione filmica: fu girato più e più volte, con tre cineprese simultanea­mente, in pieno inverno, sotto una pioggia gelida. Per mantenere tutto a fuoco contempora­neamente (faceva parte della filosofia di regia di Kurosawa che ogni cosa nell’inquadratu­ra dovesse essere perfettame­nte a fuoco) utilizzava abbondante­mente le lenti lunghe, il che però richiedeva una grande quantità di luce. Il montaggio è un miracolo di discrezion­e: si va via con l’impression­e di un’azione fluida, mentre in verità la sequenza contiene una molteplici­tà di tagli quasi invisibili.

Una versione del film, ridotta di quasi 60 minuti, fu presentata alla Mostra del cinema di Venezia nel 1954 e vinse il Leone d’argento. Nel 1975 è uscito il film in versione integrale.

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