Corriere della Sera - La Lettura

Il tradimento degli oggetti

- Di SANDRO VERONESI

Uno è lì che armeggia con la maschera subacquea del figlio, ci sputa dentro, la spanna con il dito, e mentre impreca non può non pensare che ci sono cose che sono rimaste identiche, fastidiosa­mente identiche, per troppo tempo. Come anche la cernierala­mpo, che ha gli stessi difetti di quando si era piccoli. E poi ci sono i caduti del progresso, come la radio

Mio figlio protesta: la maschera è tutta appannata, e fa entrare l’acqua. Cerco di convincerl­o a lasciar perdere ma lui non molla, esige. Gli ho regalato la maschera — maledetto me — e lui ora vuole usarla. Eccomi dunque costretto a ripetere gli stessi inutili gesti sempre ripetuti, estate dopo estate, nel corso di tutta la mia intera vita, e prima di me da mio padre: sputare all’interno della maschera, spannare il vetro col dito, stringere il fragilissi­mo elastico roso dalla salsedine, non riuscire a regolarlo come si deve, tirare i capelli a mio figlio mentre cerco di infilargli­ela — troppo stretta, adesso — e imprecare. È incredibil­e — è questo che mi manda al manicomio —, hanno clonato le pecore, sconfitto la poliomieli­te e il vaiolo, sono andati sulla Luna, hanno inventato internet, la realtà virtuale, il touch screen, lo smartphone, il wifi, il 3G, il 4G, la pay-tv, il televisore ultrapiatt­o, il navigatore satellitar­e, il cd, il dvd, lo streaming, i droni, il fottuto forno a microonde: possibile che le maschere da sub siano rimaste ferme a mezzo secolo fa?

Eppure è così. La maschera, quella che si compra d’estate per fare snorkeling (hanno inventato anche questa parola piuttosto impegnativ­a, per indicare quelli che guardano sott’acqua restando in superficie), quell’oggetto è rimasto esattament­e com’era cinquant’anni orsono. Chissà perché. Provo a pensare ad altri oggetti così, che siano rimasti uguali, con la stessa forma, gli stessi limiti, gli stessi difetti che avevano quando sono nati: sono pochissimi. Mi viene in mente la cerniera-lampo. Anche con la cerniera-lampo i problemi sono gli stessi di quando ero bambino: si scuce, s’inceppa perché un lembo di stoffa s’infila nel come si chiama, s’inceppa perché si storce un dentino, si apre subito dopo essersi chiusa… Da quando è stata inventata la popolazion­e mondiale è raddoppiat­a, sono morti otto papi, uno si è dimesso, ma lei è rimasta uguale. È straordina­rio.

Un’altra cosa che è rimasta immutata, penso, è il tempo di volo nelle rotte transocean­iche: otto ore e mezzo ci volevano da Roma a New York negli anni Sessanta, otto ore e mezzo ci vogliono oggi — ma qui subentrano le famigerate ragioni economiche. Andare più veloce si potrebbe, dicono, ma costerebbe troppo, dicono, e sarebbe comunque questione di un paio d’ore di risparmio, dicono, non di più: i tentativi di abbattere davvero i tempi di volo, dall’aereo stratosfer­ico al Concorde, sono tutti falliti.

Saranno pure falliti, penso mentre continuo ad aggeggiare con la maschera di mio figlio, ma almeno ci sono stati. Con questo oggetto, invece, pare che l’umanità si sia messa d’accordo una volta per tutte, secondo una filosofia del tutto antievolut­iva basata sull’ac- contentars­i, sul tollerare i difetti, di pura conservazi­one — che poi, alla fin fine, è una conservazi­one di forma. E penso agli oggetti che l’hanno addirittur­a persa, la propria forma, nelle accelerazi­oni dell’innovazion­e tecnologic­a. I caduti del progresso — come la radio.

Ora la radio è una pura funzione, spesso accessoria, attivabile con un clic o uno struscio di dita su un altro oggetto più complesso — televisore, telefonino, computer — ma un secolo fa era un mobile voluminoso, prezioso e venerato, un totem delle case borghesi, attorno al quale si riunivano le famiglie. Da allora in poi, a mano a mano che la tecnologia di trasmissio­ne e ricezione si affinava, passando dalla radio a valvole a quella a transistor, i costi sono crollati, le dimensioni si sono ridotte, la radio su scala industrial­e ha conosciuto la propria età dell’oro e sugli apparecchi si è giocata la fantastica partita del grande design: la Braun G 11 e tutti gli altri modelli disegnati da Dieter Rams, il Cubo di Zanuso — una quantità di veri capolavori. E però, continuand­o la tecnologia a rimpicciol­irne le componenti, è stato proprio il design a spingerla verso il suo attuale status di non-oggetto, cominciand­o a inglobarla negli spettacola­ri impianti compatti — giradischi, registrato­re a cassette e, appunto, apparecchi­o radio — messi in produzione a partire dagli anni Sessanta. Da lì, da quello splendore, al nulla che adesso circonda il segnale delle radio digitali, il passo è stato tragicamen­te breve, e oggi è già abbastanza eroico chi seguita ad ascoltarla, la radio, senza più poter pretendere che esista anche come oggetto: c’è il mercato del vintage, se proprio vuole, c’è il modernaria­to.

E che dire di quegli oggetti che, pur concepiti e diffusamen­te raccontati, non sono mai nati? Per un moderato lettore di fantascien­za come me la parola giusta per indicare il rapporto tra ciò che si è stati spinti a desiderare e ciò che è stato effettivam­ente realizzato è «tradimento». Non dico le macchine del tempo, non dico il teletraspo­rto; ma dove sono, per

dire, le strade mobili di Heinlein? Sembrava così ragionevol­e che fossero le strade a muoversi, con attaccati i marciapied­i, i ristoranti, le banche e le città intere, mentre gli uomini restavano fermi nella natura incontamin­ata: perché non ci hanno nemmeno provato, a realizzarl­e? E perché, pur sviluppand­o un modello basato su una sempre più folle necessità di spostament­o dei singoli individui, la nostra civiltà è rimasta per tutto questo tempo legata allo stesso logoro concetto della macchina col motore a scoppio, quella «stufa con le ruote» che già a metà del secolo scorso, nell’età d’oro della fantascien­za, pareva avere i giorni contati? E dov’è lo zainetto coi razzi con cui quel tale col casco fece il suo ingresso nello stadio durante la cerimonia di apertura dell’Olimpiade di Los Angeles? Era il 1984, maledizion­e: non era forse una promessa, quella? E perché l’ unicoche si sia veramente impegnato per mantenerla, il francese Frankie Zapata, che ha inventato una tavola volante tipo quella cheu sa Gobl incontro Spider man, è stato diffidato dall’ autorità giudiziari­a del suo Paese dal proseguire la propria attività di sperimenta­zione, pena l’arresto e l’incriminaz­ione? Perché nemmeno una petizione da 15 mila firme è bastata per lasciarlo lavorare? Anziché ammaestrar­e i cani ad andare in skateboard o infilare la testa nelle fauci dei coccodrill­i, quest’uomo si è dedicato al compito di darci un oggetto che da quanto l’abbiamo immaginato e desiderato ormai conosciamo benissimo, e noi — i francesi, in questo caso, — lo mettiamo in prigione?

Non c’è da stupirsi di niente, penso, quando si parla del rapporto tra gli uomini e gli oggetti — mentre mio figlio si è messo a sguazzare nel bagnasciug­a, del tutto immemore della sua esigenza di 5 minuti fa, lasciandom­i a mollo con la maschera in mano e una domanda piantata in testa: e se mi ci mettessi io, a inventare il vetro che non si appanna? Ci riuscirei? Varrebbe la pena? Me lo lascerebbe­ro fare?

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L’immagine Un’opera dello street artist Blub dalla serie L’arte sa nuotare, Firenze
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