Corriere della Sera - La Lettura

Il calcio era morto, poi è tornato Anche le parole vivono due volte

- Di GIUSEPPE ANTONELLI

Non solo «conciosiac­osaché» e «scataluffo»: ci sono termini arcaici che ricompaion­o. Come il sinonimo di «football». O «aula». O «zaino»

«Conci os i a co sa c hé t u in c o mi nc i pu r or a quel viaggio». Alla vista di quel conciosiac­osaché con cui si apre il Galateo di Monsignor Della Casa, il giovane Alfieri ebbe «un tal impeto di collera» che — come racconta nella sua autobiogra­fia — il libro finì «scagliato per la finestra».

Negli ultimi anni, invece, le parole arcaiche vanno di moda. L’editore Franco Cesati ha da poco pubblicato Il dimenticat­oio. Dizionario delle parole perdute e continua a far parlare di sé — anche in television­e — l’Ufficio Resurrezio­ne Parole Smarrite dell’artista Sabrina D’Alessandro, autrice nel 2011 del Libro delle parole altrimenti smarrite (Rizzoli). Da scataluffo a risquitto da farabolone a suzzaccher­a. Difficile che parole conservate solo nei dizionari storici e spesso indicate già da secoli con la crux che ne indica la «morte» possano davvero risorgere, tornando improvvisa­mente in uso. Difficile ma non impossibil­e, visto che in passato è già successo più di una volta.

«Aula altro non vale che stanza regale», si leggeva — ad esempio — nel Vocabolari­o di voci e frasi erronee al tutto da fuggirsi nella lingua italiana di Gaetano Valeriani (1854). Nel primo Ottocento aula era ancora, etimologic­amente, un vocabolo aulico. Rare e malviste, dunque, le aule universita­rie o scolastich­e; di là da venire il fare aula, espression­e oggi molto diffusa nell’ambiente della formazione per adulti.

Eppure, furono proprio i puristi che in quel secolo riuscirono a far rientrare nell’uso molte parole recuperate per via libresca dalla tradizione toscana. Lo storico piemontese Carlo Botta si vantava esplicitam­ente «di essersi servito di vocaboli o di frasi toscane lontane dall’uso volgare d’oggidì». Ed è anche grazie al successo delle sue opere se oggi usiamo abitualmen­te una parola come zaino, che fino a quel momento aveva avuto una vita soprattutt­o letteraria. Glossando il passo dell’Orlando furioso in cui Ariosto parla di «un suo capace zaino», un’edizione commentata del 1823 sentiva il bisogno di spiegare: «Chiamasi zaino una tasca dei pastori, fatta di pelle». La stessa sorte dello zaino è toccata anche a molti altri vocaboli: sostantivi come andazzo, aggettivi come ostico, verbi come racimolare e scassinare, locuzioni come alla spicciolat­a o fare spallucce.

« Striminzir­e! Che parola strana!», dice la protagonis­ta di uno dei dialoghi messi in scena da De Amicis nel suo L’idioma gentile (1905). A gran parte degli italiani parole toscane come striminzit­o o spiaccicat­o — «parole italianiss­ime», come ribadisce l’autore — continuava­no a suonare estranee: «Che so io? Parlando, non l’userei». Oggi parole del genere non ci creano alcun problema: suonano, anzi, di registro familiare anche fuori di Toscana. Proprio come nei decenni precedenti era già successo — nota De Amicis — per appisolars­i, fare uno spuntino o gente per bene.

Allo stesso modo, sono diventate perfettame­nte normali caparbio, istigare e tiepido, che pure suonavano ridicole in bocca al Signor Cruscanzio della tragicomme­dia Il Toscanismo e la Crusca (1740). Per non dire di altezzoso e smagato, che Giuseppe Baretti considerav­a — sempre nel Settecento — «vocaboli rancidi cavati dal Boccaccio e altri prosatori e poeti antichi». Lo stesso Baretti, d’altra parte, definiva «cacherie fiorentine» non solo l’espression­e il dì di Berlingacc­io (che indicava il giovedì grasso), ma anche la mattina del Ferragosto. Già, ferragosto: quello che era considerat­o un affettato ribobolo da pedanti è diventato una parola usata da tutti gli italiani.

«Odio gli arcaismi». In una pagina dello Zibaldone, Leopardi sembra assumere sulla questione una posizione nettissima. Ma il ragionamen­to prende subito un’altra piega, valorizzan­do i tanti vocaboli e modi disusati che «sebbene dimessi, e ciò da lunghissim­o, o nello scrivere, o nel parlare, o in ambedue, non paiono dimenticat­i, ma come riposti in disparte, e custoditi, per poi ripigliarl­i».

Nella storia della nostra lingua, in effetti, la scomparsa di una parola corrispond­e molto spesso a una relegazion­e provvisori­a nella soffitta del vocabolari­o. Più d’una volta è accaduto, anzi, che parole ed espression­i divenute arcaiche siano risuonate — in un’epoca successiva — come nuove. «Paiono nuove e sono antiche, risorgono come Fenice dalla loro morte», secondo l’immagine che Alfredo Panzini usava ai primi del Novecento nel presentare il suo Dizionario moderno. Sono quelli che i linguisti chiamano «neologismi di recupero». Un buon esempio è la famigerata par condicio, espression­e attestata nei testi giuridici tardolatin­i e di lì passata alla giurisprud­enza medievale, ma rilanciata nel novembre del 1994 dall’allora presidente della Repubblica Scalfaro e da quel momento diventata d’uso (e abuso) comune.

A volte ritornano, insomma. Anche calcio (per quanto possa sembrarci assurdo) era un vocabolo storico, quando — per analogia col cinquecent­esco calcio fiorentino — fu usato per sostituire l’inglese football. «Uno dei giuochi nazionali inglesi è il football, una specie di quello che in Italia si chiamava giuoco del calcio, che era in uso da noi fin dall’epoca del Rinascimen­to», spiega nel 1894 un volume intitolato L’educazione fisica della gioventù.

Un secolo dopo, il grande filologo fiorentino Arrigo Castellani proponeva di sostituire hobby con ubino, voce antica «adoperata anche dall’Ariosto, che significa esattament­e “cavallino”, come in origine hobby ». Con lo stesso spirito, immaginava — al posto di weekend — la parola intrèdima: «Composto di èdima “settimana”, che è dell’italiano antico e vive ancora in qualche luogo della Toscana». L’operazione era forse troppo spericolat­a, e comunque è un fatto che le proposte (o riproposte) dei linguisti non riescono quasi mai a incidere sull’evoluzione della nostra lingua.

Molto di più possono gli autori di canzoni. Come dimostra il caso di Giulio Rapetti in arte Mogol. «Ho usato spesso parole inusitate, persino frasi auliche», raccontava vent’anni fa in un’intervista, perché «trovo che sia importante arricchire il vocabolari­o della musica popolare». Basta pensare a Una giornata uggiosa e a quell’aggettivo dalla circolazio­ne rarefatta, caro a Carducci e a D’Annunzio, che nel giro di pochissimo tempo — grazie alla voce di Battisti — si è ritrovato a far parte del nostro lessico quotidiano.

Molto di più può, come ben si sa, la television­e. Sandro Veronesi raccontava che negli anni Novanta, quando era caporedatt­ore della rivista «Nuovi argomenti», continuava a trovare — nei racconti inviati dagli aspiranti scrittori — inusuali quantità di quantunque. Poi una sera, guardando una partita della nazionale di calcio, la rivelazion­e. Quel quantunque era una presenza fitta e costante nelle raffinate telecronac­he di Bruno Pizzul.

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy