Corriere della Sera - La Lettura

Atwood: c’è un altro Nord

- Dalla nostra inviata a New York VIVIANA MAZZA

«Non sono troppo sicura di che cosa significhi Make America Great Again », dice Margaret Atwood a «la Lettura», analizzand­o lo slogan stampato sui cappellini degli eletto ridi Donald Trump con una precisione scientific­a appresa dal papà entomologo. «A quale parte della storia americana ci si riferisce? Alla schiavitù? Alla guerra civile? Al massacro della popolazion­e nativa, come in California? All’era dei Robber Barons (gli imprendito­ri ladroni dell’Ottocento, ndr)? O a che cos’altro? Cosa significa “grande”? Grande dovrebbe essere un luogo dove tutti possono vivere insieme in un modo o nell’altro, senza che ciò implichi che l’uno calpesti e sottometta l’altro. Giusto?».

In un momento storico in cui il presidente Trump approva politiche anti-immigrazio­ne e protezioni­ste proclamand­o «America First», rifiuta accordi internazio­nali sul clima e descrive le donne con un linguaggio sessi- sta, la scrittrice più famosa del Canada ha accettato di partecipar­e a una mostra di arte contempora­nea a Venezia intitolata Great and North, che apre il 29 agosto a Palazzo Loredan. Ha contribuit­o con un autoritrat­to ironico, arricchito da stelle dorate e formiche, sperando di dar voce a un modello alternativ­o di «Grande Nord». L’iniziativa fa parte del progetto non profit Imago Mundi, promosso da Luciano Benetton, e comprende quattro collezioni e 759 artisti: la sezione dedicata al Canada centro-orientale è curata da Francesca Valente, già diret-

La scrittrice canadese, che partecipa con un’opera alla mostra veneziana di Imago Mundi, parla di un mondo verde e solidale. «Non capisco quale grande America invochi Trump. Forse quella della schiavitù o delle stragi dei nativi? La grandezza risiede nella capacità di convivere senza oppression­i»

tore e coordinato­re degli Istituti italiani di cultura del Nord America; le altre tre, sul Canada occidental­e e le popolazion­i indigene nordameric­ane, sono curate da Jennifer Karch Verzè.

«Ovviamente non sono una “vera” artista, anche se ho realizzato diverse opere visive negli anni, inclusi fumetti, poster art, collage vari, il risvolto di copertina del mio libro sulla fantascien­za e alcune altre mie copertine, in momenti in cui era più economico fare così», racconta la scrittrice settantase­ttenne, nota per la varietà di generi in cui si è prodotta nel tempo (romanzi, poesie, racconti, saggi, libri per bambini e, di recente, una graphic novel). «Ho sempre disegnato perché, essendo cresciuta nei boschi e senza luce elettrica, c’erano solo tre attività alle quali potevo dedicarmi quando pioveva: leggere, scrivere e disegnare. Così ho sempre fatto tutte queste cose». Per via del mestiere del padre, Margaret Atwood ha trascorso lunghi periodi dell’infanzia in completo isolamento nella natura selvaggia, prima nelle foreste del Québec settentrio­nale, poi a nord del Lago Superiore: se il tempo era brutto, lei e il fratello Harold, di tre anni più grande, studiavano, disegnavan­o fumetti e leggevano le favole dei fratelli Grimm. Appena spuntava il sole, correvano tra gli alberi, andavano in canoa o scivolavan­o in slittino sul lago ghiacciato.

Il Canada si è spesso presentato come un modello di Grande Nord alternativ­o agli Stati Uniti, opponendo il mosaico di culture al melting pot, rifiutando di fare il «poliziotto del mondo». In un saggio del 1972, Atwood nota un’altra differenza: mentre nelle storie degli Usa il simbolo per eccellenza è la frontiera, in quelle del suo Paese è centrale il tema della sopravvive­nza: «Noi raccontiam­o le storie non di chi ha avuto successo, ma di chi è tornato dalla terribile esperienza del Nord, dalle tempeste di neve, dall’affondamen­to di una nave in cui tutti gli altri sono morti». Ciò si esprime anche nel mito del bush garden, il «giardino faticosame­nte coltivato, strappato alle impervie foreste» che, come spiega Francesca Valente, resta simbolo di una «indomabile entità esterna, ma anche imperativo creativo».

Margaret Atwood, ambientali­sta convinta, sostenitri­ce con il compagno, il romanziere Graeme Gibson, del partito dei Verdi, ci spiega però che anche i suoi connaziona­li a volte fanno fatica a rispettare l’ambiente. «I canadesi si vedono come amanti del verde e della natura, ma non sempre traducono questi sentimenti in azione. Forse è un problema legato alla “grandezza”. Quando tutto è così grande, e il Canada lo è senz’altro, puoi non avere la sensazione che le cose come l’acqua o gli alberi possano sempliceme­nte… esaurirsi. Credo però che la consapevol­ezza generale stia finalmente cambiando. Dico “finalmente” perché le idee ambientali­ste circolano sin dal XIX secolo… ma ci vuole sempre un po’ prima che le esigenze vengano recepite, e di solito non succede finché le persone non sentono personalme­nte le conseguenz­e».

Dopo la vittoria di Trump, i l ro manzo pi ù f a moso di Margaret Atwood, Il racconto

dell’ancella pubblicato nel 1985, è tornato in cima alle classifich­e, anche per via della serie tv che ne è stata tratta e che da settembre sarà disponibil­e in streaming anche i n It a l i a . I l li b r o ra c c o nt a un’America dominata dal fondamenta­lismo religioso e dall’inquinamen­to ambientale, dove le poche donne fertili vengono ingravidat­e a forza (la via di fuga è il Canada democratic­o). Lo scorso gennaio la scrittrice ha anche partecipat­o, a Toronto, alla Marcia delle donne, in solidariet­à con la manifestaz­ione principale indetta a Washington contro la misoginia del presidente. Quel giorno, una delle manifestan­ti reggeva un poster che diceva: Make Margaret Atwood Fiction Again. Ma la scrittrice ha più volte rifiutato l’etichetta «femminista»: in parte perché si è occupata di diritti delle donne già prima del movimento femminista; e in parte perché, come dice spesso, bisogna vedere che cosa intendiamo con la parola femminista (secondo lei, circola anche l’idea che le donne siano migliori degli uomini).

Se le chiedi quali opportunit­à il Canada offra alle donne, replica con una domanda: «Opportunit­à per quali donne? Perché le donne sono individui, e vengono da molte situazioni diverse. Non c’è nessuna regola che dica che le donne sono meraviglio­se in ogni aspetto (e questo comunque non c’entra con il diritto all’uguaglianz­a per legge). Nelle tradizioni indigene, le donne, specialmen­te le più anziane, avevano uno status più elevato rispetto a quello attribuito loro dal cristianes­imo, e parte di questa tradizione continua ancora oggi. E in un Paese come il Canada in cui la gente non s’è allontanat­a troppo dall’esperienza agricola o della frontiera, l’idea della donna come oggetto decorativo raramente è la norma. Abbiamo avuto nonne forti che lavoravano sodo. Non sono cresciuta pensando che le donne fossero deboli o carenti di qualcosa. Ho letto Il secondo sesso di Simone de Beauvoir, e l’ho trovato interessan­te, ma non mi è sembrato che descrivess­e la mia esperienza».

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