Corriere della Sera - La Lettura

Ho smesso di scrivere, è un modo di vivere

Philip Roth

- LE ILLUSTRAZI­ONI DI QUESTE PAGINE E DELLA SUCCESSIVA SONO DI CIAJ ROCCHI E MATTEO DEMONTE di LIVIA MANERA

Alla vigilia dell’uscita negli Stati Uniti di una raccolta di saggi, il romanziere che meglio di tutti ha interpreta­to il secondo Novecento americano rompe il silenzio e accetta di rispondere ad alcune domande de «la Lettura»

Come ogni anno, dall’inizio di giugno alla fine di settembre Philip Roth lascia l’appartamen­to nell’Upper West di New York e si ritira nella sua casa settecente­sca del Connecticu­t, al confine con il Massachuse­tts, in un paesaggio di aceri e frassini gigantesch­i che proteggono la sua voglia di starsene isolato e ricevere soltanto le visite degli amici più intimi. In questa bella casa di legno grigio, arredata con gusto ma senza altre pretese che il comfort, Roth trascorre il suo tempo nuotando in piscina per curare la schiena, leggendo saggi di storia americana e ascoltando musica classica, quando non si ritrova come tutti incollato alla television­e a seguire l’ultima mattana di un presidente che considera una vergogna e una minaccia per il Paese.

Proprio per questo, probabilme­nte, quando gli chiedo se è disposto a concedere un’intervista a «la Lettura» dopo tanti anni di silenzio, accetta a condizione di non affrontare temi di attualità. Del suo pensiero in fatto di politica e società parlano i trentuno libri che ha pubblicato in sessant’anni di lavoro, dalle pagine sarcastich­e su Richard Nixon di La nostra gang (1971), ai risvolti tragici della caccia alle streghe di Ho sposato un comunista (1998), alla bigotteria dell’impeachmen­t del presidente Clinton della Macchia umana (2000). Eppure il suo cuore democratic­o si rifiuta di credermi quando gli dico che qualche settimana fa, prima dell’inizio di un concerto di Rachmanino­ff all’Hollywood Bowl di Los Angeles, il pubblico si è alzato in piedi e ha cantato l’inno americano. «C’è qualcosa di poco chiaro in questa storia», dice scettico. «Manca qualcosa. Se fosse vero farebbe venire i brividi».

Quando gli chiedo della sua vita in campagna, racconta che la novità di quest’estate sono stati gli orsi. Ora, quando esce di casa è costretto a urlare come un matto o a suonare il clacson dell’auto, con la speranza di spaventarl­i e costringer­li ad allontanar­si. Chiacchier­iamo al telefono per oltre un’ora, ma le domande preferisce riceverle per email.

In «Why Write?» («Perché scrivere?»), nelle librerie americane dal 12 settembre, lei afferma che «uno scrittore ha bisogno dei suoi veleni. E un antidoto al veleno è spesso un libro». Tra i suoi, di veleni, si potrebbero annoverare gli attacchi che ha ricevuto fin dal principio della sua carriera. E tuttavia — pensando agli anni Sessanta — Norman Mailer era uno scrittore che andava a cercare la rissa, lei sembra essersi ritrovato al centro di infiammate polemiche senza volerlo. Di certo quello che ha scritto ha dato fastidio a molta gente. Ma ha anche trovato una motivazion­e in quella resistenza. Con il senno di poi, pensa che la rabbia sia la migliore amica di uno scrittore?

«No, la rabbia è probabilme­nte la peggior nemica di un romanziere. Qualunque cosa offuschi la mente di un romanziere è sua nemica, e c’è forse qualcosa di più accecante della rabbia? Lei ha ragione a dire che all’inizio non ero uno che andasse a cercarsi la rissa. Né ho trovato solo avversari all’epoca del mio esordio — il mio primo libro ha ricevuto l’apprezzame­nto di alcuni dei critici più seri in circolazio­ne e ha vinto più di un premio. Ma ha anche dato, come dice lei, fastidio a una porzione significat­iva del mio pubblico ebreo, e la virulenza della loro reazione mi ha preso in effetti davvero di sorpresa, quando avevo ventisette anni. Avevo orrore dell’antisemiti­smo; perciò non era gradevole essere etichettat­o come antisemita da questi lettori ebrei fuori di sé».

«Pastorale americana» può essere interpreta­to come uno spartiacqu­e, il momento in cui a sessant’anni ha finalmente deciso di affrontare i temi politico-sociali da cui aveva preso le distanze quando, negli anni Sessanta, ha scritto che di fronte a una realtà americana che superava ogni limite, «la povera immaginazi­one di un romanziere» risultava umiliata. Che cosa pensa di avere perso, e guadagnato, nel diventare uno scrittore più maturo?

«Ho guadagnato la maturità, che per me, come romanziere, ha voluto dire una consapevol­ezza delle dimensioni più profonde del romanzo stesso. Ho scoperto che il potere del romanzo risiede nella ricchezza delle diverse parti che lo compongono. O forse quello che ho scoperto sono risorse dentro di me che solo il passaggio del tempo — gli anni e anni dedicati a scrivere e a vivere — poteva rendere accessibil­i». Che impatto crede di avere avuto sulla letteratur­a e sull’America?

«È una valutazion­e che preferisco lasciare ad altri».

In «Why Write?» lei ha pubblicato una lettera della scrittrice Mary McCarthy, molto critica nei confronti del suo romanzo «La controvita». Ha anche scritto che ci sono state stroncatur­e che le hanno cavato il sangue e scatenato la sua furia. Sono reazioni comprensib­ili, ma mi è venuto da pensare: esiste la possibilit­à che uno scrittore possa imparare qualcosa di utile da una recensione negativa? A lei, è mai successo?

«Le recensioni non sono scritte per lo scrittore. Sono scritte per i lettori. Che una recensione sia favorevole o sfavorevol­e, è una cosa che davvero non tocca quel processo lungo, arduo e intricato attraverso il quale un romanzo prende forma. Nel corso di un singolo giorno di lavoro, uno scrittore alle prese con un romanzo compie migliaia di scelte e queste scelte sono decise da migliaia di altri fattori, eccetera. Il lavoro del recensore, non importa quanto dotato, si svolge in un’altra sfera».

In questo libro lei dice che «a volte, quando si inizia a scrivere un romanzo, l’incertezza nasce non tanto dal fatto che la scrittura venga con difficoltà, ma dal contrario, dal fatto che non venga con abbastanza difficoltà». Quest’abitudine a cercare una resistenza — nelle sue parole, questo andare in cerca di «guai» — è rimasta invariata, nel corso degli anni, o è cambiata?

«Semmai, direi che la sfida negli anni si è fatta più intensa. Invece di diventare più facile, con la crescita e la maturazion­e del proprio talento, la battaglia con il proprio materiale si espande — o almeno questa è stata la mia esperienza. Più cose sapevo, più difficile diventava».

Insomma, alla fine, perché scrivere? Il suo libro offre una risposta lunga 452 pagine. Come le ho detto al telefono, è il libro più intelligen­te — e spesso esilarante — che abbia letto da anni. Ma vorrei girarle la domanda che ha scelto per il suo titolo, e avere una riposta da una persona che può guardare indietro a sessant’anni di lavoro… «Il meglio che posso dire è che ho scritto perché volevo vedere se ne ero capace».

E ora che ha smesso, com’è non essere uno scrittore attivo? Come valuta l’esperienza di separare la sua vita dalla scrittura?

«Io non sono più molte cose che una volta ero, e non sono più capace di fare una quantità di cose che una volta facevo. A ottantaqua­ttro anni, smettere diventa un modo di vivere. Delle cose che non ho più, faccio a meno».

«Il meglio che posso dire è che ho scritto per vedere se ne ero capace. Io non sono più molte cose che una volta ero, e non sono più capace di fare una quantità di cose che una volta facevo. A 84 anni, delle cose che non ho più, faccio a meno»

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