Corriere della Sera - La Lettura
Il supereroe Pistorius si è ritrovato storpio
Capita abbastanza spesso che mi ritrovi a osservare i miei piedi e le mie gambe, da seduta o da semisdraiata, talvolta anche allo specchio, e che ne patisca l’inerte estraneità. La forma e l’aspetto sono sempre gli stessi, caviglie sottili, belle ginocchia, piedi piccoli e pelle liscia, ma l’assenza di attività muscolare, conseguente alla semiparalisi, ha assottigliato l’insieme. Da quando non cammino più, a causa di una lesione midollare, le mie gambe e i miei piedi sono involucri che contengono ossa, nervi, sangue e tendini impacchettati in qualche straterello adiposo. Hanno perso peso, volume e tono, eppure gravano come piombo quando devo spostarli da una superficie all’altra. A volte penso siano come i fossili o i calchi che conservano l’impronta e l’apparenza di qualcosa che non c’è più: il movimento. Arti inferiori, siccome non li uso e non li sento, accade anche che me ne dimentichi. Così quando, di recente, un amico nel congedarsi ha appoggiato un bacio su uno dei miei piedi che stava scivolando dal divano senza che me ne accorgessi, ho avuto l’impressione che stesse baciando la foto di un caro amico scomparso.
È difficile coltivare fantasie su qualcosa che è stato e non è più, il sentimento che domina, in questi casi, è
Alessandra Sarchi, scrittrice, finalista al Campiello, non cammina più da quando aveva 32 anni. Le è capitato di leggere due volte l’autobiografia di Pistorius, affascinata dall’atleta paralimpico che non s’è fatto schiacciare dal dolore. Ma ora che è stato condannato per l’omicidio della fidanzata e il suo mito è precipitato, non ha meno di prima qualcosa da dire sulla condizione umana: che siamo manchevoli, e con la manchevolezza dobbiamo convivere ILLUSTRAZIONE DI ANGELO RUTA
piuttosto il rimpianto o la nostalgia. Avendo camminato e saltellato e danzato per i primi trentadue anni della mia vita, spesso ho nostalgia delle mie gambe, anche se sono lì, ben ferme al loro posto. Ci sono, anche se non servono più a molto. Ma se un pezzo non c’è stato fin dall’inizio o è venuto a mancare all’improvviso, allora forse è diverso perché non c’è niente che sfidi l’immaginazione umana come le lacune.
Quando alla Paralimpiade ateniese del 2004 il diciottenne sudafricano Oscar Pistorius vinse il bronzo nei cento metri e l’oro nei duecento, la cosa che più colpì me, e molti altri spettatori dei Giochi, fu come le protesi innestate all’altezza delle ginocchia su entrambe le gambe amputate, sembrassero una parte perfettamente assimilata al resto del corpo. Mentre correva lo rendevano simile a uno di quei felini velocissimi che popolano la sua terra di provenienza. Le due lamine di titanio e fibra di carbonio si chiamano non a caso cheetah, il ghepardo che nella savana sfreccia alla velocità di 120 chilometri orari. La più stupefacente integrazione a una lacuna che si potesse immaginare.
Da fermo, in piedi, e a passo normale di cammino, le protesi di Pistorius lasciano viceversa intuire l’immenso lavoro di bilanciamento che occorre per portarle; non sembrano più le ali di Mercurio, il dio alato degli antichi, o le zampe artigliate di un felino, ma una sofisticata estensione ingegneristica che richiede un altrettanto complesso adattamento del corpo umano per garantire la sicurezza dell’aggancio, la presa al suolo, l’equilibrio e la spinta propulsiva. Con un po’ più di fantasia si potrebbe anche ipotizzare l’attrito doloroso che queste protesi creano con la parte di corpo sulla quale premono e scaricano il peso, i monconi, dove in genere l’epidermide è più fragile perché ricucita e innaturalmente sollecitata. Ma, in genere, degli sportivi si preferisce vedere solo il lato vittorioso e sorridente che li rende simili a quegli dèi in onore dei quali venivano celebrati i giochi olimpici, nella Grecia antica. Niente fatica, sangue o lacrime. E di un dio luminoso Oscar Pistorius aveva anche il volto avvenente, il fisico prestante plasmato dagli allenamenti, la filosofia di vita tutta concentrata sul superamento, sempre, di ogni barriera e impedimento, col sorriso, però.
Le ripetute vittorie ai Mondiali di atletica e alle Paralimpiadi negli anni seguenti, il contributo determinante nella medaglia d’argento del Sudafrica nella staffetta 4x400 all’Olimpiade londinese del 2012, in cui fu l’unico atleta amputato a correre in una batteria di normodotati, ne hanno fatto l’uomo più famoso nel suo Paese, dopo Nelson Mandela. Un atleta formidabile di cui bianchi e neri indistintamente vanno fieri e che la mondanità ha acclamato come sex symbol. Un uomo cui mancano i piedi e le gambe dal ginocchio in giù; c’è di che essere grati di aver vissuto nel XXI secolo anche solo per aver assistito a miracoli culturali e tecnologici di questo genere.
Oscar Pistorius, in verità, non è nato senza la parte inferiore di entrambe le gambe dal ginocchio al piede. Il 22 novembre 1986, quando vide la luce a Johannesburg in Sudafrica, era dotato di arti inferiori, ma mancavano i peroni, i talloni erano in posizione verticale anziché orizzontale, aveva due dita al posto delle cinque che un piede umano di norma possiede. Emimelia fibulare è la malattia, in questo caso genetica, all’origine della malformazione.
Pare che prima del parto il padre, Henke Pistorius, avesse scambiato una battuta con l’ostetrica augurandosi che il suo bambino possedesse, innanzitutto, le cinque dita dei piedi. Mi domando se questo modo di dire, non estraneo anche alla nostra cultura popolare, non risenta del biblico monito che non è uomo colui che non appoggia i piedi a terra.
Con quei due piedi equini, così incongrui sul corpo di un bel neonato dai lineamenti delicati e dalla peluria bionda, di sicuro Oscar non avrebbe mai potuto camminare, figuriamoci correre. Su consiglio del chirurgo ortopedico Jerry Versfeld, uno dei numerosi consultati, i genitori di Oscar decisero di sottoporlo all’amputazione delle parti malformate che, con la crescita, gli avrebbero solo causato problemi e immobilità. Così, a undici mesi, quando la spinta motoria si manifesta prepotente nei cuccioli d’uomo, Oscar venne addormentato, steso su un lettino operatorio e, con un intervento durato quattro ore, privato delle estremità dalle ginocchia in giù. Gambe e piedi segati — perché, sì, le ossa si segano — vennero gettati nel pattume, come pare disse il padre. Il dottor Versfeld cercò di preservare però i talloni, posizionandoli orizzontali, perché quei cuscinetti callosi, sarebbero stati fondamentali per camminare.
Sul web si trovano commoventi fotografie di Oscar molto piccolo, sempre sorridente, con due protesi di legno, le sue nuove gambe, i suoi nuovi piedi.
Da neonato, in culla o nel passeggino, immagino che abbia portato alla bocca i piedini, per succhiarli e giocarci come fanno tutti i bebè, dai tre mesi in poi, quando iniziano a esplorare la meraviglia di estendersi nello spazio e di poterlo occupare col proprio corpo. In qualche strato inaccessibile della sua memoria, forse, c’è la trama di un ricordo simile, ma per il resto Oscar è cresciuto senza aver mai appoggiato i piedi a terra, senza aver mai sentito il fresco dell’erba sulla pianta, il calore della sabbia fra le dita sotto il sole, la straordinaria stabilità della stazione eretta. Ha fatto tutto quello che un bambino fa: ha corso, saltato, nuotato, si è arrampicato e rotolato. Il racconto delle avventure infantili e adolescenziali nella sua autobiografia Dream Runner. In cor
sa per un sogno (con Gianni Merlo, Rizzoli, 2012) rivela la stessa ingenuità e la stessa ipereccitazione di un bambino. Di tanto in tanto Pistorius menziona la fatica di rinnovare, ogni paio di settimane, le protesi perché crescendo i due monconi spesso sanguinavano, si riempivano di vesciche e granulomi, e lo stress costante di averle ben salde sotto di sé, perché poteva capitare che qualche bambino gli facesse lo sgambetto o le rompesse, urtandolo.
Ma viveva in un contesto sociale dove competizione e ostentazione di virilità tra afrikaner sono valori indiscussi, con una madre, Sheila, da lui adorata, che gli ripeteva: la frase «non riesco» non ha alcun senso, e perdente non è chi arriva ultimo, ma chi non prova nemmeno a gareggiare. Al tempo stesso, Sheila gli insegnava a usare l’ironia con chi dimostrasse curiosità nei confronti delle sue gambe: dì che te le ha portate via uno squalo, gli suggeriva. Oscar aggiungeva di suo, davanti a un bambino che gli faceva domande sulle protesi: te le puoi comprare anche tu da Toys’R’us, se metti via un po’ di soldi.
Niente lacrime, denti stretti, autoironia, disciplina e fede in Dio, anche quando la madre morì e Oscar aveva solo quindici anni. Ma lui continuò a indossare quella divisa impeccabile, che infrangeva molti tabù e luoghi comuni legati alla disabilità. D’altronde Pistorius ha ripetutamente dichiarato di non considerarsi disabile. Si definiva normale. In realtà io credo che si sentisse speciale, e con qualche ragione: sulle piste otteneva tempi che talvolta nemmeno i normodotati raggiungevano, gigantografie con la sua foto che pubblicizzavano i prodotti della Nike erano appese ovunque sui palazzi di Pretoria e Johannesburg, guadagnava soldi in quantità tali da potersi permettere auto di lusso e convinte azioni di beneficienza, come quella a favore dei mutilati del Mozambico, gli chiedevano servizi fotografici, non solo come atleta ma anche come modello. Era un eroe nazionale, molto amato anche all’estero.
Poi è successo quello che tutti sappiamo: la notte fra il 13 e il 14 febbraio 2013, Pistorius sparò, uccidendola, quattro colpi di pistola a Reeva Steenkamp, sua fidanzata da qualche mese. Lei si era chiusa nel gabinetto di casa, lui si era alzato al buio, camminando senza protesi, convinto che ci fossero ladri in casa, fatto molto comune in Sudafrica dove il numero di aggressioni e furti è fra i più alti al mondo. Dichiarato colpevole di omicidio colposo, in primo grado, con una pena di cinque anni di carcere, Pistorius ha avuto una revisione della sentenza a omicidio doloso, con l’aggiunta di un anno di detenzione, in appello. Subito dopo l’accaduto e, sempre durante il lungo processo, è apparso sconvolto, incredulo e terrorizzato per quello che ha fatto. Non ha mai smesso di vomitare e piangere da quando ha raccolto il corpo crivellato di Reeva, che lui credeva essere un ladro e che ha trascinato fuori dal bagno, chiedendo soccorso ai vicini. In rete si trova una fotografia di lui, scattata subito dopo, a torso nudo, con i pantaloncini da basket con cui era andato a letto, le protesi calzate, imbrattato di sangue da capo a piedi. Così come si trovano svariati filmati del processo, in cui singhiozza, piange e vomita, invocando perdono.
Da quella notte del 2013 Pistorius ha iniziato a fare i conti con la disabilità che ha sempre negato, con i piedi e le gambe che non ha. Durante il processo per due volte si è dovuto togliere le protesi e ha camminato sui moncherini, per ricostruire la scena e la dinamica dei suoi spostamenti dalla camera al bagno. Non più un metro e ottantaquattro di atleta, ma un uomo di uno e cinquanta che ha bisogno di appoggiarsi per procedere. Un essere vulnerabile, di cui non si fatica a capire l’enorme sforzo di compensazione: lo sport, le vittorie, le auto veloci, le armi da fuoco.
Umiliato come mai prima — in aula non sono state risparmiate nemmeno letture dei messaggi amorosi con Reeva — Pistorius è diventato un eroe caduto, perché non c’è niente di più appetibile per l’opinione pubblica, dopo la costruzione di un mito, della sua decadenza rovinosa. Ha perso la donna che amava, ha perso la propria carriera atletica, il denaro, il successo. Ha perso tutto. La sua disabilità ha avuto un peso nella considerazione della dinamica dell’accaduto da parte del giudice, ed è stata la ragione anche del suo trasferimento dall’affollata e pericolosa prigione centrale di Pretoria a un carcere più adatto, dove si trovano solo sei detenuti. L’acrobata, il supereroe si è ritrovato storpio.
Ho letto due volte l’autobiografia di Pistorius, affascinata dal misto di candore, inconsapevolezza e immaturità di un ragazzo che non si è fatto schiacciare dal dolore e dalle cattive carte che la sorte gli ha riservato, ma non le ha mai nemmeno riconosciute come tali. Adesso, che con quel dolore è costretto a confrontarsi, non ha meno di prima, quando era un fenomeno, qualcosa da dire sulla condizione umana: che siamo manchevoli per definizione, e con la manchevolezza dobbiamo imparare e convivere.