Corriere della Sera - La Lettura

Siamo soli anche tra la folla: nei romanzi trovo tanti amici

Un giorno — era molto piccola — mia figlia ha messo in fila tutti i suoi animali di pelouche e ha esclamato: «Sono i miei amici». Ecco. È quello che provo per i personaggi che ho creato, e anche per i personaggi che ho trovato nei miei libri preferiti. Qu

- di ELIZABETH STROUT ILLUSTRAZI­ONE DI NATHALIE COHEN

Ecco quel che ho capito un giorno quando ero giovane: non sapremo mai cosa si prova a essere un’altra persona. Ero seduta in salotto con un gruppo di parenti quando mi sono resa conto che ciascuno di noi avrebbe visto il mondo solo attraverso i propri occhi, e non avremmo mai veramente saputo — almeno in questo mondo — cosa si prova a essere una persona differente. Questo mi ha tormentato e mi tormenta ancora, ed è il motore che sta dietro tutto il mio lavoro: cercare di sapere che cosa si prova a essere quell’altra persona.

Pensiamo di saperlo. Pensiamo di conoscere i nostri coniugi, i nostri figli, gli amici con cui condividia­mo confidenze e che le condividon­o con noi — ma in realtà non lo sappiamo. Ci sono sempre dei pezzetti di vissuto tenuti dentro di noi che non condividia­mo, forse perché ci vergogniam­o, o perché non sappiamo nemmeno come mettere in parole questi sentimenti. C’è sempre una parte della nostra esperienza umana che rimane solo nostra. E così c’è sempre uno spazio tra le persone.

In questo spazio si insinuano la letteratur­a e la poesia.

Ricordo la prima volta in cui, leggendo un libro, ho pensato: «Anch’io ho avuto quel pensiero! Non sapevo potesse accadere ad altri!». Non ricordo più quale pensiero fosse, ricordo solo l’emozione di leggere che qualcun altro aveva avuto quel pensiero. In questo modo la letteratur­a ci aiuta a capire che non siamo soli. Che tutto quello che pensiamo o sentiamo è stato probabilme­nte pensato o sentito da altri prima di noi. Questo è estremamen­te importante. Non solo per il lettore, ma per il mondo, perché abbiamo bisogno di sapere che non siamo soli e abbiamo bisogno di capire nel miglior modo possibile quello che qualcun altro sta provando.

Ho una conoscente che non ama leggere né romanzi né poesie. «Non sono per me», mi dice. «E poi, i romanzi non sono veri». Incontro questa signora una volta all’anno e la conosco da quindici anni. In questo arco di tempo si è sposata e ha avuto dei bambini. Rivedendol­a di recente mi ha detto: «La vita non è come la si immagina». Le ho risposto: «In effetti, no». E lei ha aggiunto: «Ad esempio, amo mio marito ma lui mi fa diventare pazza e i miei figli, amo anche loro, ma...». Ha sospirato, si è guardata attorno e ha commentato: «Non so, sembra tutto così... faticoso e piuttosto spiacevole e imperfetto!». E io ho pensato tra me e me, oh cara, avresti dovuto leggere di più.

Perché dove altro troviamo che la vita è faticosa, che non è quella che ci aspettavam­o, ma anche che ha i suoi piccoli trionfi e grandi momenti di grazia? Dove altro impariamo queste cose se non nella letteratur­a?

In Olive Kitteridge c’è una scena in cui Olive, che ha sentito la sua nuova nuora farsi beffe del suo vestito, decide di rubarle il reggiseno e una scarpa. Non ho mai fatto cose simili, ma è stato molto di- vertente il giorno in cui al mio tavolo di lavoro ho capito che Olive lo avrebbe fatto. Ma quello che mi ha stupito di più è che molte persone avrebbero voglia di fare una cosa così! Rubare il reggiseno alla nuora, rubarle una scarpa. Quando viaggio e incontro i miei lettori, ci sono sempre delle signore che si avvicinano e mi dicono in confidenza: «Come ha fatto a saperlo?».

Non so come ho fatto a saperlo — ho solo cercato di capire cosa avrebbe provato Olive, l’ho portata in giro per la stanza e ho pensato, dai Olive, rubiamo il reggiseno alla ragazza, e lei l’ha fatto. Quel che voglio dire è che nessuno sembra avere il coraggio di confessare ad altri il desiderio di fare una cosa del genere. Magari diciamo: perché mai mio figlio ha sposato una donna così tremenda? Ma probabilme­nte non è una questione che consideria­mo con troppa attenzione. E così, quando leggiamo di Olive, capiamo di non essere soli.

Quando ho scritto Mi chiamo Lucy Barton, che parla di una donna che viene da una povertà terribile ma poi raggiunge un’esistenza borghese a New York, ci ho messo molte cose che avevo sentito o visto nel corso della vita. Quando facevo la terza elementare, avevo un compagno che non parlava mai, era molto povero e nessuno gli rivolgeva la parola. Ricordo che un giorno la maestra gli disse: «Hai le

Il mio ultimo libro, «Tutto è possibile», parla di quei momenti di grazia che a volte capitano: per esempio la donna di un B&B incontra un veterano del Vietnam e insieme condividon­o un glorioso momento di consapevol­ezza

orecchie sporche. Nessuno è così povero da non potersi comprare una saponetta!». E ricordo che il collo e il viso del bambino divennero paonazzi. Ho fatto fare quella stessa esperienza alla sorella di Lucy Barton in seconda elementare. Mi era rimasta profondame­nte impressa.

Quando riesco a scrivere in modo veritiero di cose che ho assorbito nel corso della vita, allora c’è la possibilit­à che i miei lettori siano toccati e riconoscan­o la genuinità del mio lavoro. Spero che non molti abbiano avuto un padre come quello di Lucy Barton. Ma se quel che scrivo viene dal cuore e ho il cuore aperto nei confronti di quel poveretto — se riesco a r i conoscere come l ’ hanno r i dotto l e esperienze della guerra — allora c’è speranza che i miei lettori riescano a provare come possa essere stata un’altra vita.

Per me una delle cose più belle dell’essere scrittrice è che quando mi metto davanti a una pagina sospendo il giudizio sui miei personaggi. Li amo tutti. Qualunque cosa facciano sono loro a farla, io sono qui per riferire. Non giudicarli è molto liberatori­o, nella vita reale giudichiam­o continuame­nte la gente, e alla fine questo è estenuante. Mentre mi aspetto che i lettori giudichino i miei personaggi — dopotutto loro sono i lettori, e a loro appartiene il libro — spero sempre che aprano il cuore almeno un pochino per lasciarci entrare l’esperienza di un altro. Non mi interessa quel che è giusto o ingiusto, buono o cattivo, altrimenti sarebbe un melodramma. Quel che mi interessa è la complessa, disordinat­a materia umana che forma la maggior parte delle nostre vite.

Il mio ultimo libro, Tutto è possibile, parla di quei momenti di grazia che inaspettat­amente capitano nella nostra vita. Si tratta di quel che può accadere nel mondo in cui viviamo. Un uomo che ha vissuto gran parte della vita in isolamento entra in comunicazi­one con un altro, ed entrambe le loro vite cambiano. Una donna che gestisce un Bed&Breakfast incontra un veterano del Vietnam e insieme condividon­o un vero e glorioso momento di consapevol­ezza. Un uomo che ha fatto un matrimonio sbagliato im- provvisame­nte capisce cos’è la vera amicizia. Nel libro accadono cose di questo tipo.

Ho cominciato a scrivere questo libro quando stavo ancora scrivendo Il mio nome è Lucy Barton. Mentre ascoltavo — e scrivevo — le conversazi­oni tra Lucy e sua madre, che discutevan­o delle persone del passato di Lucy, mi chiedevo: che cosa è successo a quelle ragazze così carine? Allora prendevo un foglio di carta e scribacchi­avo qualche scena della loro vita, per come io le vedevo. Che ne era di Mississipp­i Mary? — pensavo. E così ho scritto anche di lei. E quando Il mio nome è Lucy Barton è finito, ho capito che stavo scrivendo un libro che si accompagna­va a quello che avevo appena finito. La mia curiosità per la gente — quella gente, in particolar­e — era ancora una volta la motivazion­e che mi spingeva a scrivere. Nulla mi ha mai tanto interessat­o quanto la vita delle persone. E dato che conosco solo me stessa, invento queste persone, e le invento usando ogni piccola parte di me che riesco a evocare.

Quando mia figlia era molto piccola, era molto attaccata ai suoi animali di peluche. Un giorno mi ha chiamato nella sua stanza e mi ha preso la mano con la sua manina appiccicos­a. Aveva messo in fila tutti i suoi animali di peluche. «Sono i miei amici», ha esclamato con orgoglio. Ho pensato molto spesso a quella frase. È quel che provo per i personaggi che ho creato, e anche per i personaggi che ho trovato nei miei libri preferiti. Sono i miei amici, queste persone inventate che possono sembrarci tanto reali quanto quelle tra cui camminiamo, che ci perdonano, come noi perdoniamo loro.

La vita può a volte essere piena di solitudine, e abbiamo bisogno di amici. Se li troviamo nella letteratur­a, questo aiuta tutti noi. Aiuta il marito che mi dice: «Mia moglie è Olive». Aiuta la donna che dice, «Mia suocera è Olive e la capisco meglio». E aiuta le donne — Dio le benedica — che mi dicono con orgoglio: «Olive sono io». La mia speranza come scrittrice è duplice: aiutare le persone a capirsi meglio e avere per un momento una vis io n e pi ù a mp i a de l mo nd o i n cu i viviamo. ( traduzione di Maria Sepa)

Nulla mi ha mai interessat­o tanto quanto la vita

delle persone. E dato che conosco solo me stessa (non possiamo che conoscere solo noi stessi), invento queste persone, e le invento usando ogni piccola parte di me che riesco a evocare

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