Corriere della Sera - La Lettura

Dodici anni senza mio figlio Oggi il dolore è parte della gioia

- Di ALESSIA RASTELLI

L’attrice Marianne Leone, volto della serie tv «I Soprano», ha perso nel 2005 il suo Jesse, disabile dalla nascita. A lui dedica un potente memoir in cui narra la vita insieme e quella dopo. «Si può tornare a ridere, ma la pena resta per sempre»

«Qualcuno diceva: “Forse è meglio così”. Come se la disabilità di mio figlio sminuisse la sua morte, come se noi genitori avessimo dovuto a quel punto sentirci sollevati dal peso delle sue cure. Invece non provavamo nulla di simile. Queste parole erano come una seconda perdita».

Marianne Leone, attrice americana, ha dato per anni il volto a Joanne Moltisanti, madre di Christophe­r, uno dei personaggi principali nella celebre serie tv I Soprano. Nella vita reale, nel 2005, ha perso il suo unico figlio Jesse, 17 anni, tetraplegi­co in seguito a un’emorragia cerebrale a pochi giorni dalla nascita, costretto su una sedia a rotelle, senza la possibilit­à di parlare. A lui l’attrice ha dedicato un memoir, cui sarà riservato un incontro al Festivalet­teratura di Mantova. Un libro nato non nell’immediatez­za del lutto ma diversi anni dopo, «in un momento in cui — dice l’attrice a “la Lettura” — sentivo il desiderio e il bisogno di pensare e scrivere di Jesse tutti i giorni, come se stessi ancora trascorren­do con lui ogni ora».

Quello che distingue questo testo — il titolo è appunto Jesse (Nutrimenti) — da altri scritti di genitori e familiari che hanno vissuto situazioni simili, è proprio la doppia natura di racconto di una disabilità e insieme di una perdita, la più estrema. E così se alcuni passi, come quelli sulla battaglia dei genitori per l’inclusione di Jesse a scuola, evocano — a distanza — le intense pagine di Nati due volte di Giuseppe Pontiggia (da cui Gianni Amelio trasse il film Le chiavi di casa), altri capitoli fanno invece venire in mente alcune riflession­i della scrittrice irlandese Catherine Dunne che, nel 1997 — lo stesso anno dell’uscita de La metà di niente — perse il figlio Eoin.

In un articolo pubblicato sull’«Irish Times», poi confluito nella raccolta The Death of a Child («La morte di un bambino», Continuum, 2011), la scrittrice di Dublino, attingendo alla lingua urdu, aveva suggerito la parola ghum-khaur («mangiatori di dolore») per descrivere «la comunità che si raccoglie attorno a chi ha subìto un lutto e ne assorbe la pena». Gli amici, fondamenta­li anche per Marianne Leone, specie chi ha vissuto o ancora vive situazioni simili alla sua: «Mary Somoza, madre di due gemelle tetraplegi­che, che sta scrivendo anche lei un libro, è stata la mia mentore. Ross Lilley, che creò il gruppo AccesSport­America grazie a cui Jesse potè fare windsurf, ha celebrato il suo funerale. Sono circondata da persone affettuose, anche se — confessa — solo mio marito può davvero capire la profondità della nostra perdita. E Brandy, la ragazza che assisteva Jesse».

Marianne ha provato tutto, la disabilità e il lutto. Eppure quello che potrebbe essere il resoconto di una catastrofe diventa, come nota il regista Davide Ferrario nella prefazione, «una potente, irresistib­ile celebrazio­ne della sopravvive­nza». In effetti dal libro non ci si stacca e si ha voglia di tornarvi. È onesto, a tratti ironico. E ha un buon ritmo: Marianne era già autrice di sceneggiat­ure e ha seguito un apposito corso di scrittura dedicato ai memoir. Incoraggia­ta dall’editore Simon & Schuster, inoltre, ha pubblicato all’inizio di ciascuno dei ventisette capitoli foto di Jesse e della sua famiglia, nella quale alla fine sembra davvero di entrare.

Marianne è sposata con un altro attore, il premio Oscar per Il ladro di orchidee, Chris Cooper. Una vita hollywoodi­ana, il tappeto rosso, lui che si sposta da un set all’altro in giro per l’America. Ma che, per proteggere Jesse, in 17 anni ha lasciato entrare in casa un solo giornalist­a. È stato Chris, racconta Marianne, ad aggiungere artigianal­i maniglie ai puzzle perché il figlio potesse giocare, lui a costruire con una vecchia rete da pallavolo l’altalena con cui Jesse si dondolava in cucina. «Non volle mai, come fanno alcuni uomini, che il bambino diventasse una sua estensione. Avere un figlio, ogni figlio, significa lasciarlo essere la persona che è. Chris è stato meraviglio­so in questo».

Ecco allora che la vita di Jesse si colora. Il padre e la madre lottano perché sia ammesso a scuola con gli altri bambini, non solo nelle classi speciali. Cambiano città: da Hoboken, nel New Jersey, a una fermata da Manhattan, a Kingston, un piccolo paese del Massachuse­tts, dove le statistich­e dicono che il tasso di inclusione è più alto. Su Jesse pesa il pregiudizi­o che non sia intelligen­te. Invece lo è. Riesce a dimostrarl­o grazie a un sistema di scrittura con il computer che sfrutta il movimento degli occhi. Compone poesie, ha degli amici e una fidanzata con cui va al ballo della scuola. «Comunichia­mo con lo sguardo», svela lei. A un certo punto Jesse riesce a conversare con «un uomo afasico e tetraplegi­co che ha conseguito un master e lavora per una società di software». E anche i genitori sono convinti che potrà farcela: «Per la prima volta abbiamo immaginato nostro figlio al college e più in là ancora, con un vero lavoro».

La forza dell’esempio. Che è anche il grande valore dei memoir di questo tipo, come già notava qualche anno fa su «la Lettura» (#157, 23 novembre 2014), Simone Fanti a proposito della crescente diffusione dei racconti che mettono al centro la disabilità. «Vorrei davvero che il mio libro potesse aiutare altre famiglie — dice Marianne —. Quando è uscito negli Stati Uniti ho ricevuto molte lettere di genitori che si sentivano incoraggia­ti a combattere». Anche per questo, dice, «sono ancora un’attivista». Scrive articoli sul «Boston Globe» — uno, recente, si scaglia contro Donald Trump per avere pubblicame­nte irriso un disabile — e ha creato la Jesse Cooper Foundation, che finanzia borse di studio e promuove lo sport tra i bambini con bisogni speciali.

Oggi Marianne e Chris abitano ancora nella stessa casa dove c’era Jesse. Poco dopo la morte del figlio lei ha sconfitto un tumore «grosso quanto pesava il mio bambino alla nascita».

«Molti mi chiedono se scrivere il libro sia stato catartico, ma catarsi — osserva — significa “purificazi­one dalle emozioni”. Jesse invece non è scomparso dalla mia vita. Il suo ricordo è sempre con me e talora piango, perché mi manca e mi fa male vedere i suoi amici diventare uomini mentre lui non ne ha avuto la possibilit­à, perché provo ancora un desiderio viscerale di abbracciar­lo, anche se è morto da dodici anni».

Quello di Marianne però non è un messaggio disperato, ma realistico, in cui c’è ancora spazio per la vita. «Da quando Jesse non c’è — racconta — ho riprovato la gioia, ho riso fino alle lacrime. Ho scritto libri e saggi, ho recitato in tv e al cinema, ho partecipat­o a grandi feste di famiglia. A volte però non sono riuscita ad alzarmi per tutto il giorno, nella ricorrenza del compleanno di mio figlio o di quando l’ho trovato morto nel suo letto». «Gli psichiatri — conclude — potrebbero dire che sono i segni di una depression­e profonda. Ma la pena non ha limiti di tempo, non ha una durata. E per me valgono le parole che il personaggi­o di C. S. Lewis pronuncia nel film Viaggio in Inghilterr­a: “Il dolore adesso è parte della gioia”».

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