Corriere della Sera - La Lettura

Voglio uomini che piangono

- Di SERENA DANNA

La scrittrice Chimamanda Ngozi Adichie racconta come il femminismo sia sempre stato la sua causa e spiega perché ripensare la mascolinit­à sia una priorità politica. E su Trump: «I valori che credevamo connaturat­i al sogno americano stanno svanendo»

Nelle ultime foto pubblicate sul suo profilo Instagram, la scrittrice nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie sfoggia una cascata di treccine raccolte con elastici colorati. Una scelta che ha a che fare con il look solo in apparenza: in Americanah — il romanzo che l’ha consacrata grande interprete dei conflitti identitari di chi vive tra due culture — faceva dire alla protagonis­ta Ifemelu che i capelli sono «la metafora perfetta» della razza in America: il «potere bianco» li vuole lisci e ordinati, e così gli afroameric­ani, provoca Chimamanda, hanno pensato che unguenti liscianti, stirature e forcine punitive fossero uno strumento di integrazio­ne razziale. Gli altri, non lei. L’orgoglio africano (e nigeriano, e Igbo, la sua etnia) è uno dei tratti più evidenti della poetica e della personalit­à della scrittrice che ha scelto un sobborgo di Baltimora come base della sua vita americana.

Abbandonar­e il punto di vista occidental­e è dunque la prima condizione per stabilire un canale di comunicazi­one con lei. La seconda è superare qualsiasi pregiudizi­o, eredità degli anni Settanta, su ciò che possa essere c o n s i d e r a to fe mmini s t a . I n C h i - mamanda — 40 anni tra pochi giorni — la ricerca e difesa dell’identità di genere si uniscono a quella razziale. Prove ne sono il famoso Ted Talk del 2012 Dovremmo tutti essere femministi (diventato un libro, il testo di una canzone di Beyoncé e una t-shirt firmata Dior esibita da varie celebrity) e Cara Ijeawele. Ovvero quindici consigli per crescere una figlia femminista (Einaudi), la lettera scritta a un’amica neomamma che le chiede, appunto, suggerimen­ti per la causa.

Negli ultimi anni si è tornato a discutere di diritti delle donne. Lei quando ha capito di essere femminista?

«Sono femminista da quando ne ho memoria: questo vuol dire che non ricordo un momento della mia vita in cui non ero pienamente consapevol­e che il mondo riserva alle donne un trattament­o diverso da quello garantito agli uomini. Ho letto solo di recente alcuni testi considerat­i seminali per il femminismo occidental­e. Diciamo che ho imparato di più studiando la storia e, sempliceme­nte, osservando il mondo».

Ha scritto «Cara Ijeawele» prima della nascita di sua figlia. Qual è il

poi rafforzate dalla società in cui viviamo. Disimparar­le richiede tanto sforzo e resilienza emotiva».

Il libro è rivolto alle bambine. Come mai i maschi, bambini e no, sono tenuti spesso in disparte quando si parla di femminismo?

«Credo che l’obiettivo più importante del femminismo oggi sia ripensare la mascolinit­à. Dobbiamo crescere gli uomini insegnando loro che la vulnerabil­ità è una cosa positiva, fornire gli strumenti e il linguaggio per permetterg­li di esprimere sentimenti. Non dobbiamo mai dire ai nostri figli che i maschi non piangono, peraltro è importante dirlo anche alle bambine che è ok se un maschio piange! In questo momento c’è un bisogno enorme di modelli femministi maschili. E credo che Barack Obama sia un buon esempio».

C’è una scuola di pensiero, che potremmo definire «radicale», che considera «patinato» il femmini-

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