Corriere della Sera - La Lettura
Robert Doisneau, il ritratto della pace
«Era un uomo libero e coraggioso, moralmente incorruttibile, che aveva vissuto da vicino i conflitti del Novecento». Lo scrittore con «la Lettura» ricorda l’amico fotografo con cui pubblicò due volumi dedicati alla famiglia e alle vacanze, che ora escono in Italia. «Insieme abbiamo riso molto, c’era tra noi una fraternità di sguardo verso il mondo»
La banlieue francese, la vita quotidiana fatta di piccole cose, l’occhio ironico e affettuoso sulle persone e sul mondo. È evidente come, al di là del mezzo espressivo e delle differenze generazionali, il fotografo Robert Doisneau e lo scrittore Daniel Pennac abbiano in comune lo stesso sguardo. Le immagini dell’uno e le parole dell’altro sono insieme in due volumi che ora l’editore Ippocampo propone nelle librerie italiane con la traduzione di Yasmina Melaouah. All’epoca di quella collaborazione (1991) Doisneau, che sarebbe morto tre anni dopo, era un’icona dell’obbiettivo, in Francia e non solo. Subito dopo la guerra era entrato nel giro dei più grandi artisti parigini legandosi di amicizia con Blaise Cendrars e Jacques Prévert ed esponendo le sue opere in tutto il mondo. Pennac era un insegnante capace di parlare a tutti gli studenti (asini compresi) ma anche lo scrittore della saga di Belleville: aveva già pubblicato i primi tre romanzi con protagonista Benjamin Malaussène, professione capro espiatorio, molto amati dal pubblico.
Doisneau e Pennac firmarono insieme Le v a c a nz e ( g i à us c i to i n I t a l i a , nel l a Bi - bliothèque de l’Image, nel 2001) e Vita di famiglia. Il primo racconta la nascita di quello che si potrebbe definire il diritto alla vacanza, le «ferie retribuite» (introdotte in Francia nel 1936 dal Fronte popolare) e il loro evolversi fino agli anni Sessanta. Il secondo si concentra sugli anni Cinquanta e Sessanta, dopo gli anni bui della guerra, ed è un inno a una ritrovata serenità, al desiderio di guardare al futuro con ottimismo e speranza da parte di una società che ripartiva dalla sua cellula più piccola, la famiglia appunto.
Alle immagini di Doisneau, capaci di costruire un album di famiglia intimo e collettivo allo stesso tempo, Pennac fa da contrappunto con le sue istantanee scritte: ricordi personali, racconti, dialoghi veri o verosimili che confermano il suo talento narrativo. «Ci siamo conosciuti per caso, a una festival letterario in Francia, nel 1988 — racconta a “la Lettura” Daniel Pennac —. Io conoscevo il suo lavoro, lui i miei libri. È nata un’amicizia istantanea, un colpo di fulmine direi. Abbiamo subito riso insieme. Poi ci siamo frequentati: pranzi, cene, vacanze in Provenza, lunghe serate di chiacchiere, di discussioni piacevoli, di letture ad alta voce, di gioco con i bambini. Lui ha visto crescere mia figlia, io i suoi nipoti. Un giorno è venuto da me con un portfolio di foto e mi ha detto: vorrei che tu scrivessi un testo. Non è stato difficile perché c’era tra noi una fraternità di sguardo. Lui era più grande di me, lo consideravo quasi un fratello maggiore».
Le immagini erano i bambini alla stazione seduti sulle valigie, la signora sulla spiaggia con un cappello di paglia e una sacca (anch’essa con cappello di paglia) affiancate sullo stesso telo, quei passeggini, quelle biciclette, quei cortei nuziali su strade di paese in mezzo a campi di grano. Sono le atmosfere che Doisneau prediligeva e da cui continuava a lasciarsi incantare. In antitesi ai fotogiornalisti, che pure ammirava, si definiva un «corrispondente di pace». Cercava di fare come il suo amico Jacques Prévert, con cui amava vagabondare per le strade di Parigi. «Jacques — raccontò Doisneau in un’intervista del 1992 a Ulderico Munzi sul “Corriere della Sera” — trovava una parola banale, una parola stanca, magari letta su un manifesto pubblicitario o colta nella voce di una passante, e creava qualcosa di poetico, le infondeva una vitalità nuova. Io tento di fare lo stesso con le immagini. Vorrei ricordare alla gente che il bello può splendere nel quotidiano».
Eppure non c’è niente di stucchevole nei € due libri di Doisneau e Pennac anche se, come diceva ancora Prévert, Doisneau amava coniugare il verbo fotografare all’imperfetto, il tempo della nostalgia. Il fotografo riconosceva di guardare agli anni della nascita delle «vacanze retribuite» con un certo rimpianto perché erano quelli della sua giovinezza, ma ammetteva: «Il Fronte popolare ci fece credere che il cielo sarebbe stato sempre azzurro». Come sono nati quei testi che ora si leggono come un testo narrativo lo racconta Pennac: «Un giorno l’ho invitato a casa mia, insieme ad amici comuni, e a ciascuno ho chiesto di raccontare le vacanze della loro infanzia. L’abbiamo fatto e poi ho mescolato tutto. L’atmosfera era allegra, gioiosa. In seguito ho deciso di dare al testo la forma del dialogo, anche se non erano esattamente gli stessi, identici dialoghi». Oltre a un grande fotografo, Doisneau, ricorda Pennac, «parlava molto bene, era divertente. Robert era anche molto malinconico, aveva una serietà che si esprimeva attraverso il divertimento. Quando partiva per le vacanze con i figli piccoli non diceva mai dove andavano, faceva lunghi giri delle periferie per depistarli. Non si piangeva mai addosso, sopportava tutto con coraggio e forza, anche se aveva momenti difficili. Lavorava molto per mantenere la famiglia, la moglie era ammalata, non aveva tempo per se stesso, ma aveva una leggerezza incredibile. Aveva una libertà di spirito assoluta, era indipendente da ogni condizionamento di potere. Era un uomo che non aveva paura, forte mentalmente e moralmente, incorruttibile. Non si faceva illusioni ma, allo stesso tempo dava importanza all’azione. Generoso, faceva del bene con discrezione».
Nei due libri Doisneau e Pennac documentano tutti i cambiamenti più significativi della vita sociale di quegli anni, compreso «l’avvento dell’igiene», «il trionfo della saponetta» e quindi i bagni nella tinozza di ferro, da fare in fretta perché altri aspettano. C’è la scoperta dell’autoradio, e anche Doisneau ne fa installare una, perfetta per passare il tempo del viaggio verso Biarritz: «Pierrette impiegava metà del viaggio per captare una stazione e quando ci riusciva, oplà, oltrepassavamo il limite del fuso orario e bisognava ricominciare tutto daccapo». C’è il «buffet Enrico II» che trionfa in moltissime case e che per alcune famiglie è l’unico patrimonio: «Un affare di legno scuro, con tanto di colonnine, cornice, mondanature, ferramenta varia, specchio», un vero tabernacolo «che conteneva gli oggetti liturgici delle nostre domeniche: tovaglia immacolata, calici di finto cristallo, ampolle di olio e aceto, confetti dell’ultimo battesimo e candeline del prossimo compleanno». Pennac è, come Doisneau, un fine osservatore. Così non può non rimarcare che la maggior parte dei racconti delle vacanze iniziavano con la rievocazione di una disgrazia: l’anno in cui Alice si è rotta il braccio cadendo dall’altalena, l’anno in cui Bernard si è tagliato il piede su un coccio di bottiglia, l’anno dell’incendio a Tourette «quando gli abitanti del villaggio andavano ancora all’assalto delle colline per battere i sottoboschi a colpi di coperte...».
Oggi quello sguardo dolce e tutto sommato ottimista sulla Francia, e sul mondo, sarebbe ancora possibile? Pennac non ha dubbi: «Robert era un uomo che aveva conosciuto i due grandi conflitti mondiali, la guerra d’Algeria. Suo padre era tornato distrutto dalla Prima guerra mondiale. Io sono nato alla fine della Seconda. Credetemi: ci sono in Europa e nel mondo situazioni inquietanti e difficili, ma il mondo di oggi non è peggiore di quello di ieri».