Corriere della Sera - La Lettura
Solo la terra sopravvive La via radicale di Pettena
Al Kunst di Merano le installazioni «site specific» e le opere dell’artista, nato a Bolzano nel 1940, dedicate al tema delle origini e del legame con la natura. I confini con design e architettura si dissolvono nel contenitore della memoria
Una foresta di strisce di carta accoglie il visitatore. Prende i tre piani del Kunst di Merano e i lunghissimi fogli sospesi nel vuoto cadono sinuosi sull’entrata: appaiono come misteriose liane bianche capaci di avvolgere ogni cosa, come fossero animate da un’energia viva. Un’immagine inaspettata e potente, insieme, un contatto pacifico, accogliente, quasi ammaliante. Ma Gianni Pettena, con cui «la Lettura» visita la mostra, non è del tutto soddisfatto: «Sapete che cos’è quest’opera? È la dimostrazione che non c’è niente di più dinamico e mobile della staticità dell’architettura». Lo dice sorridendo, in un gioco di provocazione meditata, assecondando la sua natura di affabulatore e di artista concettuale, esponente di quella corrente di pensiero definita da Germano Celant come Architettura Radicale. E spiega: «Questi fogli dovevano muoversi, offrire un senso di libertà, ma qui non c’è neanche un flebile soffio...». Certo, per lui non è poi così importante. Quello che conta è l’idea. E cioè che nel dialogo tra progetto e spazio si devono sempre mettere in discussione le proprie certezze.
E Gianni Pettena ha sempre messo in discussione non solo le proprie certezze, ma anche quelle che apparivano veri dogmi: nell’architettura, nel design, nell’arte. Pettena sembra faccia sue le parole di Bertolt Brecht: «Sia lode al dubbio». Dubbio come legge morale per guardare il mondo, e come strumento necessario per modificarlo. Lo si comprende in questa mostra, ma anche rileggendo la sua storia di intellettuale poliedrico, a suo modo unica nel panorama dell’arte italiana e internazionale, animato costantemente dalla volontà di frantumare convenzioni e certezze acquisite.
Nato a Bolzano nel 1940, è architetto, critico, storico dell’architettura, a lungo docente negli Stati Uniti, poi una cattedra di Storia dell’architettura a Firenze sino al 2008. Alla fine degli anni Sessanta è stato ispiratore e cofondatore in Italia del movi- mento dell’Architettura Radicale, i cui dettami proponevano visioni utopiche da cui ha avuto origine molta sperimentazione nel campo del design e dell’architettura. Da intellettuale libero qual è, si è sempre mosso su quel territorio di confine in cui l’arte dialoga con lo spazio e con la natura, raccontando (e trasformando) il mondo in un universo di visioni dense di suggestioni poetiche. Non a caso, in una felice definizione, lo storico dell’arte Joseph Masheck lo descrive affettuosamente come «un architetto attivamente in sciopero».
In questa mostra dal titolo Architetture naturali (aperta sino al 24 settembre) l’artista presenta, sul filo rosso di una memoria personale legata alle sue origini sudtirolesi, uno spettro della sua ricca e complessa ricerca costruita su costanti sperimentazioni e invenzioni di nuovi alfabeti narrativi. A cura di Christiane Rekade, la mostra si snoda lungo tutto il primo piano con una sequenza di opere alcune site specific.
Va detto che negli spazi del museo, in una sorta di inaspettato dialogo, oltre alla mostra di Gianni Pettena sono presenti anche i lavori di Helen Mirra (Rochester, New York, 1970) in un’esposizione dal titolo Camminare, tessere: una ricerca concettuale sul senso del tempo, dello scoprire lo spazio della natura, toccando anche il tema dell’identità nella creazione attraverso una serie di tessuti realizzati su standard predefiniti. Due autori che, pur differenziandosi per linguaggi artistici e generazione d’appartenenza, pongono al centro della ricerca il confronto continuo con il concetto di spazio e creazione.
È proprio questo infatti il senso anche del lavoro site specific di Pettena, Breathing Wall (2012/2017), in cui, intervenendo sull’intonaco, ha divelto lo spazio della parete per creare una simbolica branchia, uno spazio mobile quasi fosse pensato per far respirare il palazzo intero: un «muro di respirazione», appunto. Gillo Dorfles, in occasione di una lontana mostra del 2003, spiega bene l’appropriazione dell’artista degli spazi su cui lavora: «Anche se Pettena appartiene per educazione, generazione e contiguità di esperienze al mondo della ricerca “radicale”, di questa costituisce l’aspetto concettualmente più rigoroso. Non sembra quasi occuparsi della realizzazione, ma preoccuparsi invece del processo ideativo e analitico e, quando dialoga con una preesistenza, elabora con questa un rapporto di continuità e innovazione».
Continuità e innovazione, dunque, come quando presenta in stampatello su una parete, la preghiera di un Padre Nostro, scritta in tedesco medievale e che era stato costretto a imparare a memoria da bambino dal suo insegnante. Ma alla fine, al posto di «amen», Pettena riporta un gemito, quasi un urlo — «arghhh» — a volersi liberare di quella imposizione: «Ma non ci sono riuscito», osserva. E per dimostrarlo recita tutta la preghiera a memoria, lanciando un urlo finale che riempie tutta la sala.
Il tema della memoria, delle origini e della terra sono dunque elementi dominanti di questa mostra: ne è esempio
About Non-Conscious Architecture (19721973) in cui attraverso 49 fotografie in bianco e nero si narra di una serie di viaggi dentro la Monument Valley. In questo racconto, che unisce la metafisica visione di strade deserte con la magnificenza di montagne che paiono grandi cattedrali, Pettena sembra dirci, proprio come ricordano gli indiani d’America (che onoravano queste montagne come i propri templi), che qualsiasi architettura, forse la vera architettura, è quella già presente nella natura.
Il legame con la natura per Pettena è fortissimo: lo dimostra anche l’opera Paesag
gi della memoria (1987), una installazione realizzata per la prima volta per una esposizione a Otranto. Qui, l’artista mette insieme la sua memoria privata, ossia i profili in plexiglass delle montagne che appartengono al suo paesaggio dell’anima («Le ho scalate tutte queste montagne») con la sabbia delle spiagge della Puglia. Con quest’opera, l’artista sembra volerci dire che ogni cosa è possibile, anche spostare le montagne e metterle in una valigia, averle sempre con noi, come i nostri ricordi più cari: Pettena dissolve i confini tra arte, design, architettura, portandoli nel grande contenitore della memoria.
Ed ecco, infatti, ancora sul tema del ricordo, un’altra opera importante e che lega il rapporto di Pettena alla sua città natale e ai poteri simbolici dell’architettura: si tratta di Secoli e Millenni (2014) una serie di disegni in cui viene ritratto il monumento alla Vittoria di Bolzano, innalzato durante il fascismo e su cui tuttora ci sono enormi polemiche per il valore simbolico di occupazione culturale e politica. Pettena riflette su tutto questo e agisce attraverso la sua visione straniante: si affida alla forza della natura e si immagina che lentamente, nel corso del tempo, in centinaia d’anni o di millenni, il monumento come l’intera città si sgretolino lentamente, sino a dissolversi e riportare ogni cosa nella sua dimensione primigenia. Solo la natura e le montagne sopravvivono e affermano la loro supremazia di fronte ai conflitti e alla pochezza dell’uomo.
Questo tema — la natura che sopravvive sull’uomo — è anche l’oggetto di un lavoro, forse il più intenso, che chiude simbolicamente la mostra: si tratta di Human
Wall (2012-2017) una parete di argilla realizzata negli spazi della galleria e su cui sono visibili le impronte, le tracce, le mani dell’artista. Ma nel tempo l’argilla si secca, crea un cretto, le crepe si allargano: le impronte delle mani scompaiono per lasciare spazio, anche qui, alla materia pura, alla terra. Come a ricordarci una verità: è la terra da dove veniamo e là, prima o poi, ritorneremo.