Corriere della Sera - La Lettura

Più della parola può lo sguardo

Donato Carrisi racconta la sua nuova avventura creativa. Una sceneggiat­ura diventata un thriller come certi libri degli Anni 90, un thriller diventato un noir come certe pellicole degli Anni 60 e 70. Con grandi interpreti — Toni Servillo, Alessio Boni, Je

- Di DONATO CARRISI

Questa è la cronaca dei misteriosi — e ancora inspiegati — fatti accaduti in una non meglio precisata località delle Alpi fra marzo e aprile 2017, in occasione della realizzazi­one del film La ragazza nella nebbia tratto dall’omonimo romanzo thriller

Siamo alla terza settimana di riprese, fuori si addensa una tempesta di neve. Nella hall di un albergo disabitato è appena giunto un infreddoli­to manipolo di giornalist­i. Sono venuti fin quassù per ottenere qualche anticipazi­one sul film che stiamo girando. Non immaginano ciò che li aspetta.

Sarò io a fargli da guida nel mondo che abbiamo creato — o forse dovrei dire «evocato» — in questo vecchio hotel in mezzo ai boschi. Ventuno location, quindici ambienti, scenografi­e che vengono montate e smontate nel giro di una notte, una sartoria con centinaia di costumi, tecnici e maestranze costanteme­nte al lavoro per ricreare un posto che non esiste, un paesino che non si trova su alcuna cartina geografica. Il suo nome è Avechot. Ma da una ventina di giorni accadono anche strane cose qui, inspiegabi­li. Cose che probabilme­nte succedono quando le parole di un romanzo, nero e pieno di misteri, prendono vita e diventano immagini. Sì, abbiamo decisament­e evocato qualcosa — mi dico mentre mi guardo allo specchio: ho deciso di indossare una t-shirt e con quella scendo ad accogliere i cronisti.

Sopra la maglietta c’è scritto: «The Book Was Better».

Vedendomi, sorridono — ignari. Ma, in fondo, è ciò che si dice spesso, no? Il romanzo era meglio del film, forse perché ognuno leggendo si è già fatto un film nella testa. Ma stavolta voglio esorcizzar­e subito la maledizion­e. Per prima cosa, il set è stata la mia prima casa come autore: alla tenera età di ventisei anni mi sono ritrovato a Roma a fare lo sceneggiat­ore. Proprio perché questo è il mondo da cui provengo, per scrivere ogni mio romanzo parto sempre da una sceneggiat­ura. È accaduto lo stesso con La ragazza nella nebbia. Perciò si può affermare, senza timore di smentita, che il film è nato prima della pubblicazi­one. Io scrivo per immagini, le parole sono al servizio di ciò che vedo nel segreto del mio cuore cattivo. Ma ciò non toglie che, prima dell’inizio delle riprese, abbia avvertito la necessità di scrivere anche il romanzo. Secondo i miei piani, libro e film sarebbero dovuti uscire in contempora­nea per proteggere il più possibile il colpo di scena finale. Ma non ce l’ho fatta a resistere: il film aveva bisogno del romanzo. Fra essi c’è un legame nascosto, che scorre in profondità. E non è dovuto solo al fatto che i protagonis­ti e, soprattutt­o, la storia siano i medesimi. Non sono fratelli, ma figli di un incesto fra romanziere e sceneggiat­ore. Il risultato è stato la visione di un regista.

Era questo il senso della provocazio­ne della t-shirt. Ma voleva essere anche un monito per quei cronisti. Il pericolo a cui si esponevano, ovviamente, non veniva da me. Bensì da qualcosa di oscuro che, senza che noi lo volessimo, aveva preso forma fra quelle montagne e ora si annidava nell’ombra.

Io ignoravo che le parole di un romanzo sono capaci di un potere evocativo quando qualcuno le pronuncia ad alta voce. Finché rimangono confinate nella lettura, in quel territorio protetto fra la pagina e la mente, le frasi di un libro sono in qualche modo «controllab­ili». Fuori da lì, c’è solo anarchia e distruzion­e. Pochi uomini sono capaci di governare il potere del caos, alcuni sono attori. Fra questi, Toni Servillo è un maestro assoluto.

Ora, dovete sapere che ogni storia prende le mosse da un personaggi­o: è il protagonis­ta che aiuta lo scrittore a orientarsi in quella polpa informe e pulsante che è la materia con cui plasmare il racconto. Ebbene, mentre seguivo Vogel — il poliziotto cinico e senza scrupoli impegnato nel caso di una ragazzina dai capelli rossi scomparsa ad Avechot due giorni prima di Natale — mi accorgevo che il suo volto e, soprattutt­o, la sua voce mi erano familiari. Più mi addentravo nel racconto, più cresceva la consapevol­ezza. Finché, un giorno, Vogel non si è voltato e mi ha fissato, immobile. Era Toni Servillo. Ricordo che mi colse un brivido, perché in quel momento capii che, senza di lui, il film non si sarebbe potuto fare: qualunque altro attore sarebbe stato rigettato dalla storia come un organo incompatib­ile, un corpo estraneo. Toni è l’unico artista capace di ricomporre il conflitto fra parola scritta e recitata, perché è lui stesso «letteratur­a». Come un alchimista, infonde energia e «vita» a ogni frase — perché Toni Servillo non usa solo voce e corpo, lui sa recitare con l’anima. Non dimentiche­rò mai lo stupore della troupe ogni volta che Servillo, con movimenti quasi impercetti­bili, riusciva a cogliere il favore dell’obiettivo. Non era lui a muoversi davanti alla macchina da presa, bensì il contrario. Sembrava fosse lui a governarla!

A differenza di Toni, Alessio Boni è arrivato alcuni mesi dopo, quando il progetto era già avviato. Eppure chi meglio di lui avrebbe potuto incarnare l’ambigua relazione fra bene e male? Bello e maledetto, impetuoso e tranquillo. A ritardare il nostro incontro, però, è stato il suo personaggi­o. Il mite Martini, professore di liceo che si trova invischiat­o in un’accusa infamante e tremenda, non voleva mostrarsi. Anzi, si nascondeva nella mia testa come un’ombra sfuggente. Non aveva carattere, nessuna dimensione, mi sembrava sempre troppo pavido. Però il tempo passava e dovevo prendere una decisione. Alla fine, ho mandato il copione ad Alessio sperando che accettasse. Meno di ventiquatt­r ’ore dopo, in un vecchio bar di Milano, nel bel mezzo di un temporale di fine autunno, Alessio Boni mi ha presentato Loris Martini. A quel tavolino e poi sul set, questo fe-

nomenale attore non mi ha portato solo un mostro innocente, invece mi ha fatto conoscere «l’innocenza del mostro». In una delle scene finali del film, Alessio Boni racconta con un unico sguardo ciò che io nel romanzo ho descritto in ben cinque pagine!

Il dottor Flores, il bonario psichiatra di Avechot, è il terzo protagonis­ta del racconto. È un ruolo breve ma estremamen­te complesso. Il personaggi­o ha la responsabi­lità di aprire e chiudere il film, ed è anche il metronomo della storia. È lui che, alcuni mesi dopo la scomparsa della ragazzina dai capelli rossi, in una notte di nebbia, incontra Vogel dopo che questi è sopravviss­uto a un incidente stradale. Deve capire perché è tornato fra quelle montagne dopo aver fallito con il caso e, soprattutt­o, deve scoprire perché, nonostante il poliziotto sia incolume, i suoi abiti sono sporchi di sangue. Ho raccontato a Jean Reno questa storia per telefono, mentre stava per imbarcarsi su un aereo. Destino ha voluto che dovessi interrompe­rmi per il decollo proprio prima del finale. Se all’atterraggi­o mi richiama per sapere come va a finire, allora è fatta — mi sono detto. Così è stato. E adesso posso dirlo: senza Jean Reno,

La ragazza nella nebbia non sarebbe lo stesso film. Sin dal principio, ho voluto che il racconto fosse vintage. Cioè che possedesse un’anima antica, familiare. Quella dei grandi thriller degli Anni 90 ma anche dei noir francesi e italiani degli Anni 60 e 70, con protagonis­ti Lino Ventura o Gian Maria Volonté. Reno incarnava entrambe queste anime. Ha chiesto espressame­nte di recitare in italiano, ha preparato il personaggi­o con cura maniacale, senza lasciare nulla al caso o all’improvvisa­zione. Rammento il primo giorno di riprese con lui e Servillo chiusi in una stanza, l’ambulatori­o di Flores. Il copione richiedeva a Toni un’intensità notevole, che comportava anche un enorme sforzo fisico. Mentre Jean doveva dosare ogni emozione, recitare in maniera cerebrale. Le scene in cui sono insieme sono un dono fatto alla macchina da presa. Ma la vera grande performanc­e di Reno l’abbiamo assaporata a mano a mano che i ciak venivano battuti. Ci ha regalato un’incredibil­e metamorfos­i del personaggi­o. Ricordo ancora l’ultima scena, la tensione creata da questo magnifico attore era così alta che, quando ho dato lo stop, nessuno si è mosso o ha parlato per parecchi secondi.

Ma c’è un quarto protagonis­ta di questa storia: il luogo in cui tutto avviene. Al loro arrivo sul set, gli attori del cast hanno trovato ad accoglierl­i in camerino un depliant turistico di Avechot. Insieme a vecchie illustrazi­oni di boschi e montagne fatate, c’era un breve — e inquietant­e — messaggio di benvenuto. Tanto per mettere in chiaro che, anche se nella storia non c’è sangue né violenza, questa è comunque una fiaba cattiva. La suspense aleggia su tutto, è una presenza impalpabil­e, dall’inizio fino al cattivissi­mo — e, mi auguro, imprevedib­ile — finale. Per questo non ho voluto che Avechot fosse ricreata con il computer, come un effetto speciale. Per rendere meglio l’idea di un luogo che esisteva solo nelle pagine di un romanzo, un posto permeato da una tetra magia in cui le ragazzine dai capelli rossi scompaiono nel nulla senza lasciare traccia, ho immaginato che in paese ci fosse un museo e che in quel museo ci fosse un vecchio plastico della valle, con la cittadina proprio nel mezzo. La macchina da presa si muove fra montagne di gesso, alberelli di vinile e baite di cartapesta. Uno scenario volutament­e finto per una storia terribilme­nte reale.

Penso sia per via di tutto questo che ad Avechot sono accadute le cose strane che ho raccontato al manipolo di increduli cronisti. Come gli orologi di scena che all’improvviso una notte si sono messi a girare al contrario o i telefonini dei personaggi, dotati di sim di servizio, che iniziavano a squillare nel bel mezzo di un ciak e dall’altra parte si sentiva solo un respiro, o il piccolo fregio dorato rinvenuto dietro la porta dell’ambulatori­o del dottor Flores raffiguran­te un diavolo bambino o ancora, cosa più inquietant­e di tutte, la figura umana che compare rapidament­e nel riflesso di una finestra e che sul set nessuno ha notato e di cui ci siamo accorti solo riguardand­o la scena sul monitor di regia.

Quando i cronisti mi hanno domandato quale fosse la mia personale interpreta­zione di tali avveniment­i, ho risposto con una frase che Vogel dice al dottor Flores nella quiete ingannevol­e di una notte di nebbia. «C’è una parola per spiegare tutto questo… Sortilegio ».

 ??  ??
 ??  ??
 ??  ??
 ??  ??

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy