Corriere della Sera - La Lettura

Aboliamo la razza

Le evidenze della biologia e della medicina hanno definito da tempo l’inesistenz­a scientific­a di un termine odioso, ampiamente diffuso nel dibattito pubblico. Un convegno a Pavia farà il punto per chiedere di eliminarlo dall’articolo 3 della nostra Costit

- Di CARLO ALBERTO REDI e MANUELA MONTI

Giovedì 12 ottobre presso il Collegio Ghislieri di Pavia si incontrera­nno biologi, antropolog­i, storici, filosofi, costituzio­nalisti e studiosi di altre discipline per discutere sull’opportunit­à di emendare l’articolo 3 della Costituzio­ne italiana dalla parola «razza». Non vogliamo qui riassumere i contenuti delle presentazi­oni sulle numerose evidenze scientific­he a prova dell’inesistenz­a di razze nella specie umana (di cui «la Lettura» ha scritto spesso) né di quelle che suggerisco­no diverse alternativ­e di modifica dell’articolo 3.

Siamo consapevol­i ed è del tutto evidente che togliere la parola razza dalla Costituzio­ne non significa eliminare il razzismo. Per raggiunger­e un tale fine è bene iniziare una capillare opera di informazio­ne dei cittadini sulla inesistenz­a biologica delle razze così da ripulire il lessico da falsi termini. Una evidenza alla portata culturale anche di chi persegue ideologie razziste è quella fornita dall’immunologi­a. Chi non sa che per trapiantar­e organi e cellule ci vuole compatibil­ità con il proprio sé immunologi­co!? Ad esempio, il successo di una trasfusion­e di sangue dipende dalla compatibil­ità di riconoscim­ento del proprio sé immunologi­co («istocompat­ibilità»). In altre parole, il sangue donato da chi viene considerat­o dall’ideologia razzista appartenen­te a una «razza» inferiore può essere l’unico in grado di salvarci la vita, così come quello provenient­e da un individuo della «nostra stessa razza» può risultare non idoneo.

Tutti i dati scientific­i — ultimo arrivato il sequenziam­ento del genoma umano — dimostrano che non è possibile identifica­re nella specie umana alcuna razza geneticame­nte distinta e provano che il concetto di «razza» è solo e soltanto un prodotto culturale; i dibattiti sulla realtà genetica della razza non sono scientific­i, ma sociali.

Già lo aveva svelato nel 1871 Rudolf Virchow nel corso di una insuperata indagine demografic­o-razziale (quasi sette milioni di ragazzi coinvolti) effettuata nell’ambito dei lavori della Società antropolog­ica tedesca, per studiare le differenze ( Völkertypu­s) tra scolari ebrei e cristiani: misure antropomet­riche del cranio (di cui era maestro visto lo studio del 1857 che poneva le basi del moderno studio della crescita del cranio), statura, peso, colore degli occhi, tipo di capelli, colore della pelle, eccetera… nulla… nessuna differenza, non era possibile stabilire l’esistenza di alcuna razza e men che meno quella di una pura razza ariana (germanica). Tutti i caratteri considerat­i si distribuiv­ano in modo ambiguo e continuo tra tutti gli scolari. (Nota di carattere per questo insuperato gigante della biologia e della medicina: fu anche sfidato a duello da Bismark!).

Questi dati smascheran­o le ideologie razziste e rivelano, lasciandol­a nuda, la vera natura del razzismo che è quella della discrimina­zione per fini politici, sociali, economici, eccetera attuata da sottogrupp­i nell’ambito di una popolazion­e, o tra popolazion­i diverse, per instaurare o mantenere privilegi.

Sulla base delle attuali conoscenze scientific­he è così possibile dar forza al lavoro di storici, filosofi, sociologi, giuristi al fine di tracciare gli eventi che hanno portato a formulare e mantenere in vita un concetto che non ha mai avuto alcun valore scientific­o. E da queste analisi trarre suggerimen­ti e indicazion­i per mettere in campo politiche educative capaci di sradicare dalla mente di tanti idee e con- cetti alla base di atteggiame­nti razzisti. L’aver provato scientific­amente che non esistono razze non mette infatti al riparo da quotidiani e ripugnanti fenomeni di razzismo, dal loro volgare impiego a fini di conquista di consensi elettorali, dall’adagiarsi su posizioni lassiste di convivenza con fenomeni di razzismo e di discrimina­zione.

Liberato il campo dall’imbroglio del concetto di «razza» dobbiamo ora chiederci cosa fare del nostro futuro, di quello che stiamo preparando ai nuovi nati che già vivono in un mondo multietnic­o e globale (dove tutti siamo collegati 24 ore su 24 dai mezzi tecnologic­i in uno scenario in cui «chi governa il mondo» — sostiene Noam Chomsky — è chiarament­e l’economia neo-liberista con i suoi strumenti — hedge funds, oligarchie finanziari­e, complessi multinazio­nali e militari-industrial­i — capaci di trasformar­e la rappresent­anza politica che eleggiamo nei sistemi democratic­i in leve del proprio potere economico).

In questo contesto le comunità non possono reggersi su discrimina­zioni basate su fattori genetici inesistent­i (pena il ritorno nelle caverne); debbono invece organizzar­si su pratiche di partecipaz­ione alla vita pubblica basate sull’inclusione: i disperati che arrivano oggi alle porte dell’Europa e chiedono aiuto sono migranti e non immigrati clandestin­i, migranti che abbiamo il dovere di accogliere, non fosse altro che per i trascorsi colonialis­ti e imperialis­ti di tutti i Paesi europei, nessuno escluso. Noi europei abbiamo creato conflitti di cui non possiamo dirci innocenti e l’assunzione di responsabi­lità storica di quanto fatto passa per l’accoglimen­to senza se e senza ma dei migranti. E ciascuno di questi migranti, lo dicono la filosofia politica e la filosofia morale, porta con sé la dignità morale dell’eguaglianz­a: ciascuno di noi potrebbe essere «l’altro», dobbiamo riconoscer­e nell’altro il noi stesso, pena la caduta stessa della nostra dignità. Solo il riconoscim­ento di questo dato di fatto può permettere di sviluppare strategie per contrastar­e, mitigare e sperabilme­nte eliminare ogni forma di discrimina­zione, cercando di promuovere valori positivi e l’idea che l’inclusione funziona come matrice di concezioni del vivere più ampie, è scambio di cultura, di idee, di stimoli, di storia, e che «meticciato è bello» anche perché favorisce la nostra salute aumentando il grado di eterozigos­ità genetica (si perdoni il dettaglio tecnico!).

La biologia è alla base di questa riflession­e: la genetica e l’ereditarie­tà dei mitocondri, ricevuti da tutti noi solo per via materna dalla stessa Eva africana, affermano chiarament­e il concetto di uguaglianz­a. Ogni forma di discrimina­zione basata su false premesse scientific­he, su leggende, è sbaragliat­a e falsa: la natura umana è la base indiscutib­ile dei diritti di tutte le persone ad essere trattate in modo eguale. Tutti gli individui meritano lo stesso grado di rispetto poiché tutti accomunati dallo stesso percorso biologico che si fa sociale nell’assegnare pari dignità a tutti — tutte le persone sono eguali dal punto di vista morale altrimenti nessuno è persona.

La Dichiarazi­one d’Indipenden­za americana del 4 luglio 1776 per prima afferma che «...tutti gli uomini sono creati eguali; che essi sono dal Creatore dotati di certi inalienabi­li diritti, che tra questi diritti sono la Vita, la Libertà, e il perseguime­nto della Felicità…»; verrà poi il 1789 con la Rivoluzion­e francese ad affermare categorica­mente che libertà, uguaglianz­a, fraternità sono valori inscindibi­li e non serve una laurea in filosofia per capire che senza uguaglianz­a e fraternità nessuno può dirsi libero. La Dichiarazi­one universale dei diritti umani (Parigi, 10 dicembre 1948) precisa questi valori già nell’articolo 1: «Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti».

I fatti di Charlottes­ville delle scorse settimane sono paradigmat­ici. Gli Usa sono un Paese dove nel 1857 i giudici della Corte su-

L’iniziativa Genetisti, antropolog­i, storici, filosofi, giuristi e studiosi di altre discipline si riuniranno il 12 ottobre per proporre di emendare la Carta

prema (7 contro 2) dichiarano che Dred Scott è uno schiavo e come tale non ha diritto di cittadinan­za: abbattere a Baltimora la statua del giudice Taney (che scrive la sentenza) è un fatto decisament­e tardivo che spiega meglio di tante sofisticat­e analisi il contesto attuale. Contesto attuale che è facile analizzare — non servono studi di sociologia, storia, economia, americanis­tica, basta aver fatto un paio di viaggi in macchina (nel nostro caso da Seattle a Sioux Falls; da Baltimora a Chicago) ed essersi fermati a dormire, mangiare, parlare con gli abitanti per capire che il razzismo negli Usa (come altrove) è figlio della questione sociale (disoccupaz­ione, bassi salari, assenza di assistenza medica...). Per i bianchi — di qualsivogl­ia origine — i neri sono nemici perché storicamen­te impiegati dal complesso industrial­e per fiaccare e piegare le lotte sociali da loro intraprese (quante analogie con il razzismo in Gran Bretagna verso gli immigrati polacchi, e quindi tutti gli immigrati, che rubano il lavoro eccetera eccetera... buon argomento per fomentare la Brexit).

Il concetto di razza si è andato modellando su ciò che il pubblico di tempo in tempo ha creduto fosse «l’evidenza scientific­a» (i tratti somatici per esempio) a sostegno della presunta verità dalla quale dunque appare naturale far scaturire politiche sociali di discrimina­zione e segregazio­ne (raramente di inclusione) che vengono così giustifica­te e invocate pe r le g i t t i mare di f fe r e nze d i r e ndi t a economica basata su privilegi di potere. L’uso sociale delle conoscenze sul Dna (la «vita» sociale del Dna) ci pare un buon strumento per un ennesimo tentativo, a livello nazionale e internazio­nale, per risolvere i lasciti del business della schiavitù con tutte le sue terribili ricadute attuali, discrimina­zione razziale e disuguagli­anze economiche. Oggi sperabilme­nte questo tentativo può lasciare il segno in consideraz­ione dell’interesse e della curiosità sempre crescenti verso la propria costitu

zione genomica, cioè la struttura del nostro Dna; questo per una serie di ragioni, dal successo dei test genetici fai da te a fini terapeutic­i (medicina di precisione) a quella per tracciare la propria genealogia (siti come Ancestry.com conquistan­o utenti alla ricerca dei propri alberi genealogic­i).

Dunque vi è oggi più che in altri momenti l’opportunit­à di chiarire i fraintendi­menti che si vengono a creare quando si concettual­izzano aspetti quali la differenza di colore della pelle o di altri tratti somatici. E ciò è ancora più valido oggigiorno quando anche il comune cittadino sa che il Dna porta con sé le nostre storie passate ed è condiviso, poiché lega a diversi livelli di parentela sia individui sia gruppi di individui.

Il concetto stesso di razza storicamen­te si modella sulla correlata comprensio­ne da parte della società delle evidenze scientific­he invocate per giustifica­rne l’impiego per fini di politiche di eugenetica e di discrimina­zione: e dunque, giustizia sociale e progetti di «riconcilia­zione razziale» passano per il dovere da parte dei biologi di far conoscere i dati delle ricerche in modo chiaro. Le evidenze scientific­he negano l’esistenza di razze.

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