Corriere della Sera - La Lettura

Ricordate «Mystic River»? Ora scrivo della fortuna

Dennis Lehane, autore di «Mystic River», torna per affrontare alcuni interrogat­ivi: che cosa succede a chi non vince il biglietto alla lotteria della vita? A chi nasce dalla parte sbagliata della storia? A chi subisce in sei mesi un terremoto, un uragano

- Di DENNIS LEHANE

Quando andavo ancora a scuola, una ragazza che conoscevo morì a causa di un’emorragia cerebrale, durante la sua festa di fidanzamen­to. A parte un forte mal di testa che l’aveva colpita quella sera stessa, non c’erano state avvisaglie. Il fidanzato rimase amico della famiglia di lei per molti anni dopo l’accaduto; lo vedevo spesso: era un omone, sia di altezza che di corporatur­a, ma il lutto gli dava l’aria di qualcuno che aveva dovuto imparare a nuotare perché era stato buttato da una barca. Qualunque cosa sapesse prima, qualunque fede, certezza o base solida avesse, non c’era più. Ogni volta che penso a quell’uomo grande e grosso reso piccolo dallo sconcerto e dal dolore, mi si spezza un po’ il cuore. Non so cosa ne sia stato di lui, ma mi auguro che la vita gli abbia riservato qualcosa di buono, e che lungo la sua strada abbia trovato un luogo in cui la speranza è di casa.

Il padre di uno dei miei migliori amici morì per un tumore quando era ancora piuttosto giovane e al culmine del successo lavorativo. Il mio amico era al liceo, e il tumore non si portò via solo suo padre, ma anche la stabilità economica della sua famiglia e ciò che restava del già debole legame con la realtà di sua madre. Nello stesso periodo, assistetti a un atto di violenza così traumatico che anche oggi, a 35 anni di distanza, ne parlo solo alle persone che mi sono più vicine. Una di queste persone è l’amico che ha perso il padre. Entrambi siamo, all’apparenza, persone positive (nonostante ciò che accade nei miei romanzi), abbiamo un atteggiame­nto costruttiv­o e poco timore nei confronti del fallimento. Durante la scuola di specializz­azione, dopo varie discussion­i notturne alimentate da alcol e nicotina, decidemmo di essere individual­mente ottimisti, perché eravamo globalment­e pessimisti. Avevamo imparato fin da giovani che le tragedie sono casuali e non guardano in faccia nessuno. Al motore malfunzion­ante di un aereo condannato a cadere non importa nulla di chi ci sia a bordo, il terremoto non ammette trattative. Io e il mio amico decidemmo consapevol­mente di essere persone positive, proprio perché sapevamo che la vita ti salta addosso senza avvertire.

Nei miei romanzi, la tragedia sbuca spesso dall’ombra e colpisce in maniera rapida, senza preavviso né pietà, indifferen­te al dolore che provoca. A volte, questa tragedia viene dall’esterno: la Prima guerra mondiale seguita dall’influenza spagnola in Quello era l’anno, la Seconda guerra mondiale e gli orrori dei campi di concentram­ento in L’isola della paura, il terremoto del 2010 ad Haiti in Ogni nostra caduta, la perdita di una figlia in Mystic River.

Ma al trauma esteriore ne corrispond­e sempre uno interiore. Nei libri di cui ho parlato, un personaggi­o reagirà alla tragedia rinunciand­o alla propria anima, un altro perdendo la testa (o forse no?), un terzo abbandonan­do le persone che ama e un quarto, la reporter Rachel Childs, protagonis­ta di Ogni nostra caduta, sgretoland­osi sia dal punto di vista emotivo che psicologic­o. Ciò che è globale, secondo me, è sempre personale, e ciò che è personale, come abbiamo visto innumerevo­li volte nel corso della storia, può rapidament­e diventare globale.

Sono figlio di immigrati, persone che si considerav­ano fortunate oltre misura per essere sbarcate in una terra che offriva tante opportunit­à. Sapevano che ciò che gli era capitato non era qualcosa di dovuto: erano nati da un’altra parte, e riconoscev­ano la loro fortuna. Sono cresciuto imparando ad apprezzare la fortuna e temere la sfortuna. La fortuna riveste un ruolo importante nella nostra vita, forse rappresent­a il fattore che determina maggiormen­te quanto ci sentiamo felici e sicuri. Ho avuto la fortuna di essere nato con la pelle del colore giusto, nel momento giusto e nel Paese più ricco del mondo. Non ho fatto niente — assolutame­nte nulla — per meritarmi questa fortuna, ho solo vinto la lotteria che stabilisce dove nascerai e chi saranno i tuoi genitori.

Cosa succede invece a chi non vince questa lotteria? È una domanda che mi affascina dal punto di vista letterario. Cosa succede a chi è nato entro i confini di una nazione in guerra, o a chi fa parte di un’etnia che è stata scelta come capro espiatorio da coloro che hanno il potere? E a coloro che sono nati in aree della Terra soggette a terremoti, tsunami o carestie? Come fa una persona, si chiede Rachel Childs, a credere in Dio se la «volontà di Dio» si esprime per mezzo di un terremoto, un uragano e un’epidemia di colera, il tutto nell’arco di sei mesi, come successo ad Haiti nel 2010? La risposta a questa domanda, almeno per me, è: non lo so. Tutto quello che so è che sono stato fortunato, e che la fortuna va e viene. A volte, sempliceme­nte, finisce.

La paura è uno dei motori dell’arte, raramente l’unico, ma uno dei principali. Paura e curiosità: pongo domande che non hanno risposta, perché se conoscessi le risposte non dovrei fare domande, quindi non avrei bisogno di scrivere. Invece ho bisogno di scrivere. Il lavoro di un artista, secondo me, non consiste nel cercare le risposte, ma brevi visioni delle stesse. Se, durante queste fuggevoli visioni, ci capita di scoprire per caso qualche commovente verità, torniamo di nuovo a parlare di fortuna. Di paura. E di speranza.

( traduzione di Matteo Camporesi)

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Alex Hartley (Gran Bretagna, 1963), A Gentle Collapsing II (2016), courtesy dell’artista / Victoria Miro Gallery, Londra: realizzata nel giardino della galleria, l’installazi­one vuole «rappresent­are la fragilità delle costruzion­i umane»
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