Corriere della Sera - La Lettura
I fronti dell’Africa
dalle rivoluzioni del 2011, intere aree del Continente sono state inglobate in una «mediorientalizzazione» della guerra. Dalla Somalia al Mali, dalla Libia alla Nigeria si combatte un unico grande conflitto transnazionale in nome dell’islam
denza del secondo mandato, il presidente Joseph Kabila ha dimostrato di non avere alcuna intenzione di cedere il potere. Il Congo è stato l’epicentro di una guerra regionale che tra il 1996 e il 2003 ha visto l’intervento degli eserciti di Angola, Zimbabwe e Namibia a sostegno del governo di Laurent-Désiré Kabila (padre di Joseph) contro il tentativo di Ruanda e Uganda di controllare almeno una parte del Paese, dopo aver appoggiato Kabila nella lotta all’ex dittatore Mobutu Sese Seko. A dispetto degli accordi di pace del 2003, ugandesi e ruandesi non si sono mai rassegnati a rinunciare alle ricche province minerarie del Congo orientale, alimentando una guerra per procura difficilmente contenibile dal contingente di peacekeeping dell’Onu. Fin dall’indipendenza nel 1960, fu difficile trovare un chiaro riferimento nazionale per uno Stato nei cui confini nessuno dei principali gruppi linguistico-culturali (Luba, Kongo, Mongo, Azande e Lunda) costituiva la maggioranza della popolazione.
Il problema del Congo è il problema di tanti Paesi africani nei quali i confini di derivazione coloniale hanno arbitrariamente messo insieme società diverse per lingua, cultura e storia: in un contesto di estrema debolezza della nazione, una componente sub-nazionale (o etnica) può allora aspirare a farsi nazione, ridisegnando i confini dello Stato. Non a caso per l’Organizzazione dell’unità africana (Oua), nata nel 1963 ad Addis Abeba, l’intangibilità dei confini e il principio di non interferenza negli affari interni di un altro Paese membro rappresentavano la migliore risposta a crisi come quella del Congo del 1960, quando la provincia mineraria del Katanga tentò senza successo la carta della secessione, grazie al sostegno dell’ex potenza coloniale belga e del governo bianco sudafricano. L’incapacità dell’Onu di arginare questa e tante altre crisi africane lasciò all’Oua la speranza di attuare soluzioni africane per le crisi del continente.
Somalia e Corno d’Africa
La guerra civile iniziata in Somalia nel 1991 ha portato a una riorganizzazione dello spazio somalo con la nascita nella regione centro-settentrionale del Somaliland (1993) e del Puntland (1998), due «quasi-Stati» mai riconosciuti a livello internazionale. Al contrario il Sud della Somalia ha continuato a essere l’epicentro di un conflitto che è spesso stato definito come paradigma della guerra clanica o tribale e del collasso dello Stato. In realtà è proprio la metafora del clanismo a fungere da copertura per un insieme di violenze contro civili inermi che altrimenti sarebbero riconosciute come crimini di guerra, se non come crimini contro l’umanità. Al di là della retorica del fallimento dello Stato, in Somalia si continua a combattere per poste che sono al centro dei processi di ricostruzione istituzionale. Il fallimento nel 2006 dell’esperimento di governo dell’Unione delle Corti islamiche e l’intervento dell’esercito etiopico hanno portato a un ulteriore processo di radicalizzazione della componente islamica del conflitto. Intanto l’Eritrea, dopo aver conquistato con trent’anni di guerra l’indipendenza dall’Etiopia nel 1991 (riconosciuta internazionalmente nel 1993), ha sostenuto le milizie islamiste somale in funzione anti-etiopica, prima ancora di impegnarsi in una nuova guerra con l’Etiopia dal 1998 al 2000: il casus belli fu ufficialmente una disputa