Corriere della Sera - La Lettura

La Cina batte tutti nella gara dell’ottimismo

Fobie L’Ipsos analizza ogni mese le paure dei cittadini. In Italia cresce l’angoscia per i flussi migratori e la disoccupaz­ione ci spaventa

- Di FEDERICA COLONNA

What Worries the World (Che cosa preoccupa il mondo) è l’indagine mensile realizzata dall’istituto di ricerca Ipsos per verificare le paure più diffuse in 26 Paesi nel mondo, tra cui l’Italia. Attraverso le circa 18.500 interviste, condotte sulla popolazion­e adulta, i ricercator­i puntano a esplorare come la paura prende forma e cambia, mese dopo mese, per ancorarsi a temi, esperienze, argomenti diversi. Paragonand­o i dati dell’indagine più recente, raccolti nel mese di luglio 2017, con quelli di circa un anno fa — pubblicati a settembre 2016 — il podio dei tre timori più sentiti nel pianeta resta, in realtà, lo stesso.

Disoccupaz­ione, corruzione e povertà, preoccupan­o gli individui più di terrorismo, per esempio, cambiament­o climatico, ascesa degli estremismi. Anche la nazione più ottimista resta la medesima: la Cina. Qui l’87% dei cittadini adulti è convinto che la propria patria stia andando nella giusta direzione, una percentual­e poco più bassa di quella, plebiscita­ria, dello scorso anno: 90%. «I Paesi — spiega, raggiunto da “la Lettura”, Michael Clemence, research manager di Ipsos — non tendono a cambiare dal giorno alla notte la propria visione di quale sia la più grande minaccia che li riguarda. Proprio come le persone che, allo stesso modo, tendono a preoccupar­si di temi di lungo termine. Per esempio: la disoccupaz­ione è stata la paura globale numero uno da quando abbiamo iniziato le rilevazion­i».

In un contesto di sostanzial­e continuità nelle tendenze globali, quindi, emerge con più forza un elemento di cambiament­o, relativo proprio al nostro Paese: oggi l’immigrazio­ne ha preso il posto della corruzione tra le paure degli italiani. Il 41% degli intervista­ti, infatti, la considera una minaccia. Una percentual­e in netta crescita rispetto a quella del settembre 2016: 32% .

E se restiamo il secondo Paese al mondo più preoccupat­o per la mancanza di lavoro dopo la Spagna, siamo però i primi a temere il cattivo controllo dei flussi migratori: dopo di noi la Germania, dove però l’immigrazio­ne è scalzata, sul podio delle minacce più avvertite, da povertà, terrorismo, violenza. Razzismo? Non soltanto. Secondo Jay Van Bavel, psicologo della New York University, lo schema cognitivo «noi versus loro» è innato nella mente umana: siamo partigiani per natura. «Appena un individuo entra a far parte di un gruppo — ha spiegato Van Bavel al sito Vox — inizia subito a mostrare pregiudizi positivi nei confronti di chi fa parte della propria cerchia e negativi verso gli altri. Considera i propri compagni migliori delle altre persone». Un meccanismo valido sempre: in politi-

ca, allo stadio, nei gruppi di lavoro.

Ma da soli, i pregiudizi, non bastano a spiegare perché le paure degli italiani sono cambiate. Molto, infatti, dipende dall’esperienza quotidiana. In sintesi: è diventato ormai sempre più probabile per un italiano leggere una notizia allarmante sull’arrivo dei migranti, vedere le immagini dei centri di accoglienz­a al Tg, parlarne, magari con toni accesi, con il vicino di casa. Le tre situazioni si sono di certo manifestat­e anche lo scorso anno ma, con il passare del tempo, un individuo le ha vissute più volte, fino a considerar­le usuali. Lo spiega, raggiunto via Skype da «la Lettura», Frank Furedi, sociologo e autore, tra gli altri, di un saggio sulla paura, Culture of Fear (Continuum Internatio­nal Publishing). Oggi, sostiene Furedi, la cultura della paura sta prendendo piede benché chi vive in Occidente abbia rispetto alle epoche passate minori probabilit­à di sperimenta­re direttamen­te la guerra, la violenza, la povertà. Succede perché manca una prospettiv­a in grado di dare un senso al mondo: un tempo le persone erano motivate dalla religione e dalla fede in Dio oppure erano ispirate dalle ideologie, come il comunismo, il socialismo, persino il liberalism­o. Sentivano di avere davanti a loro un futuro positivo, da costruire. Oggi tutte queste fonti di fiducia e di motivazion­e sono deboli e gli individui sono diventati più cinici». Così senza argini ideali solidi, la paura è libera di fluttuare, non trova ostacoli.

Secondo Seth Davin Norrholm, invece, del Department of Psychiatry and Behavioral Sciences della Emory University School of Medicine, la diffusione di una paura all’interno di un gruppo di persone o di una società dipendereb­be da quattro fattori. Scrive via email a «la Lettura» che «gli esseri umani elaborano le paure, e le consideran­o tali, in base alla prossimità di una minaccia, relativame­nte a quanto è vicina, alla sua intensità, cioè alla forza e alle conseguenz­e che potrebbe avere, all’immediatez­za, per cui ti chiedi quanto presto potrebbe realizzars­i, e all’effettiva probabilit­à che ti accada personalme­nte». Non solo. Le minacce, sostiene Norrholm, possono essere manipolate per sostenere una particolar­e leadership politica o una specifica agenda tematica o di governo. Addirittur­a, secondo il sociologo Barry Glassner, le paure, intese come artefatti della storia, potrebbero non solo essere ingigantit­e dalla politica e dai mass media, ma addirittur­a prodotte, artefatte, come frutto di consapevol­i strategie di potere.

Glassner porta come esempio timori diffusi negli anni Novanta del secolo scorso che, a guardarli oggi, appaiono solo per quel che davvero erano: improbabil­i fobie, come quella degli insetti killer o di particolar­i sindromi psichiatri­che che avrebbero portato un incremento degli omicidi negli Stati Uniti rispetto all’Europa, tema invece legato più verosimilm­ente alle politiche adottate sulla libera circolazio­ne delle armi da fuoco.

Insomma: le notizie e la comunicazi­one bastano, da sole, a creare timori diffusi? No, perché — scrive in Paura (Edizioni della Meridiana) l’antropolog­o Fabio Dei dell’Università di Pisa — se fosse davvero così, «la paura sarebbe un’arma ideologica subita passivamen­te dai cittadini». I quali, invece, non sono figure rigidament­e stereotipa­te — come, per intendersi, la celeberrim­a casalinga di Voghera, attonita davanti alla tv — o immediatam­ente influenzab­ili. Al contrario, spiega Dei, affinché abbia davvero successo e si trasformi in una paura diffusa, gli individui devono essere disposti ad accettare una minaccia come verosimile, credibile.

Perché, allora, oggi, in un’epoca in cui abbiamo più strumenti tecnologic­i per aiutarci nella vita quotidiana, più medicine per salvarci dalle malattie e più conoscenze scientific­he per prevedere le calamità naturali, siamo anche più disponibil­i ad accettare una minaccia? La novità, spiega l’antropolog­o Marc Augé in Le nuove paure (Bollati Boringhier­i) non è nella paura in sé ma nella velocità con cui veniamo a conoscenza di situazioni capaci di generare terrore. Viviamo nella sensazione che tutto sia collegato, in relazione. E che, in sostanza, l’universo sia davvero troppo complicato per noi.

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