Corriere della Sera - La Lettura
La Cina batte tutti nella gara dell’ottimismo
Fobie L’Ipsos analizza ogni mese le paure dei cittadini. In Italia cresce l’angoscia per i flussi migratori e la disoccupazione ci spaventa
What Worries the World (Che cosa preoccupa il mondo) è l’indagine mensile realizzata dall’istituto di ricerca Ipsos per verificare le paure più diffuse in 26 Paesi nel mondo, tra cui l’Italia. Attraverso le circa 18.500 interviste, condotte sulla popolazione adulta, i ricercatori puntano a esplorare come la paura prende forma e cambia, mese dopo mese, per ancorarsi a temi, esperienze, argomenti diversi. Paragonando i dati dell’indagine più recente, raccolti nel mese di luglio 2017, con quelli di circa un anno fa — pubblicati a settembre 2016 — il podio dei tre timori più sentiti nel pianeta resta, in realtà, lo stesso.
Disoccupazione, corruzione e povertà, preoccupano gli individui più di terrorismo, per esempio, cambiamento climatico, ascesa degli estremismi. Anche la nazione più ottimista resta la medesima: la Cina. Qui l’87% dei cittadini adulti è convinto che la propria patria stia andando nella giusta direzione, una percentuale poco più bassa di quella, plebiscitaria, dello scorso anno: 90%. «I Paesi — spiega, raggiunto da “la Lettura”, Michael Clemence, research manager di Ipsos — non tendono a cambiare dal giorno alla notte la propria visione di quale sia la più grande minaccia che li riguarda. Proprio come le persone che, allo stesso modo, tendono a preoccuparsi di temi di lungo termine. Per esempio: la disoccupazione è stata la paura globale numero uno da quando abbiamo iniziato le rilevazioni».
In un contesto di sostanziale continuità nelle tendenze globali, quindi, emerge con più forza un elemento di cambiamento, relativo proprio al nostro Paese: oggi l’immigrazione ha preso il posto della corruzione tra le paure degli italiani. Il 41% degli intervistati, infatti, la considera una minaccia. Una percentuale in netta crescita rispetto a quella del settembre 2016: 32% .
E se restiamo il secondo Paese al mondo più preoccupato per la mancanza di lavoro dopo la Spagna, siamo però i primi a temere il cattivo controllo dei flussi migratori: dopo di noi la Germania, dove però l’immigrazione è scalzata, sul podio delle minacce più avvertite, da povertà, terrorismo, violenza. Razzismo? Non soltanto. Secondo Jay Van Bavel, psicologo della New York University, lo schema cognitivo «noi versus loro» è innato nella mente umana: siamo partigiani per natura. «Appena un individuo entra a far parte di un gruppo — ha spiegato Van Bavel al sito Vox — inizia subito a mostrare pregiudizi positivi nei confronti di chi fa parte della propria cerchia e negativi verso gli altri. Considera i propri compagni migliori delle altre persone». Un meccanismo valido sempre: in politi-
ca, allo stadio, nei gruppi di lavoro.
Ma da soli, i pregiudizi, non bastano a spiegare perché le paure degli italiani sono cambiate. Molto, infatti, dipende dall’esperienza quotidiana. In sintesi: è diventato ormai sempre più probabile per un italiano leggere una notizia allarmante sull’arrivo dei migranti, vedere le immagini dei centri di accoglienza al Tg, parlarne, magari con toni accesi, con il vicino di casa. Le tre situazioni si sono di certo manifestate anche lo scorso anno ma, con il passare del tempo, un individuo le ha vissute più volte, fino a considerarle usuali. Lo spiega, raggiunto via Skype da «la Lettura», Frank Furedi, sociologo e autore, tra gli altri, di un saggio sulla paura, Culture of Fear (Continuum International Publishing). Oggi, sostiene Furedi, la cultura della paura sta prendendo piede benché chi vive in Occidente abbia rispetto alle epoche passate minori probabilità di sperimentare direttamente la guerra, la violenza, la povertà. Succede perché manca una prospettiva in grado di dare un senso al mondo: un tempo le persone erano motivate dalla religione e dalla fede in Dio oppure erano ispirate dalle ideologie, come il comunismo, il socialismo, persino il liberalismo. Sentivano di avere davanti a loro un futuro positivo, da costruire. Oggi tutte queste fonti di fiducia e di motivazione sono deboli e gli individui sono diventati più cinici». Così senza argini ideali solidi, la paura è libera di fluttuare, non trova ostacoli.
Secondo Seth Davin Norrholm, invece, del Department of Psychiatry and Behavioral Sciences della Emory University School of Medicine, la diffusione di una paura all’interno di un gruppo di persone o di una società dipenderebbe da quattro fattori. Scrive via email a «la Lettura» che «gli esseri umani elaborano le paure, e le considerano tali, in base alla prossimità di una minaccia, relativamente a quanto è vicina, alla sua intensità, cioè alla forza e alle conseguenze che potrebbe avere, all’immediatezza, per cui ti chiedi quanto presto potrebbe realizzarsi, e all’effettiva probabilità che ti accada personalmente». Non solo. Le minacce, sostiene Norrholm, possono essere manipolate per sostenere una particolare leadership politica o una specifica agenda tematica o di governo. Addirittura, secondo il sociologo Barry Glassner, le paure, intese come artefatti della storia, potrebbero non solo essere ingigantite dalla politica e dai mass media, ma addirittura prodotte, artefatte, come frutto di consapevoli strategie di potere.
Glassner porta come esempio timori diffusi negli anni Novanta del secolo scorso che, a guardarli oggi, appaiono solo per quel che davvero erano: improbabili fobie, come quella degli insetti killer o di particolari sindromi psichiatriche che avrebbero portato un incremento degli omicidi negli Stati Uniti rispetto all’Europa, tema invece legato più verosimilmente alle politiche adottate sulla libera circolazione delle armi da fuoco.
Insomma: le notizie e la comunicazione bastano, da sole, a creare timori diffusi? No, perché — scrive in Paura (Edizioni della Meridiana) l’antropologo Fabio Dei dell’Università di Pisa — se fosse davvero così, «la paura sarebbe un’arma ideologica subita passivamente dai cittadini». I quali, invece, non sono figure rigidamente stereotipate — come, per intendersi, la celeberrima casalinga di Voghera, attonita davanti alla tv — o immediatamente influenzabili. Al contrario, spiega Dei, affinché abbia davvero successo e si trasformi in una paura diffusa, gli individui devono essere disposti ad accettare una minaccia come verosimile, credibile.
Perché, allora, oggi, in un’epoca in cui abbiamo più strumenti tecnologici per aiutarci nella vita quotidiana, più medicine per salvarci dalle malattie e più conoscenze scientifiche per prevedere le calamità naturali, siamo anche più disponibili ad accettare una minaccia? La novità, spiega l’antropologo Marc Augé in Le nuove paure (Bollati Boringhieri) non è nella paura in sé ma nella velocità con cui veniamo a conoscenza di situazioni capaci di generare terrore. Viviamo nella sensazione che tutto sia collegato, in relazione. E che, in sostanza, l’universo sia davvero troppo complicato per noi.