Corriere della Sera - La Lettura
La Cinquecento intonata al cielo e alla cucina
Ci sono incanto e incantamento nel nuovo romanzo di Giuseppe Lupo, docente di letteratura italiana contemporanea alla Cattolica di Milano, saggista che ha lavorato a lungo sulla letteratura industriale ( La letteratura al tempo di Adriano Olivetti, Fabbrica di carta, con Giorgio Bigatti) e narratore di un ciclo di romanzi che hanno raccontato un sud dove tornare (in particolare la Lucania dove è nato) ricco di venature fantastiche.
Nel nuovo romanzo, Gli anni del nostro incanto, che ha la misura e il passo della novella, Lupo fa uno scarto laterale ma in perfetta continuità con i libri precedenti. Gli anni Sessanta a Milano, il boom economico, l’industrializzazione che sembra essere una promessa di progresso e benessere per tutti dureranno fino all’ultimo alito del decennio, quel 12 dicembre 1969 quando la bomba di piazza Fontana apre la fase delle stragi e degli anni di piombo e la crisi del petrolio spegne le mille luci della città.
L’immagine di una giovane famiglia proletaria, in quattro su una Vespa nella Milano «sbarluscenta» di quegli anni, è l’unica cosa con cui Vittoria riesce a risvegliare per qualche minuto la madre Regina, coiffeuse, caduta in una sorta di amnesia il giorno in cui vede la foto su un settimanale femminile che rievoca quegli anni formidabili. È questo l’incantamento che l’ha precipitata nel torpore perché ricordare quelle speranze tradite è insopportabile ora che il marito Luigi detto Luis, un emigrato che aveva «l’odore di Milano» anche sulle maniche della camicia, è morto a causa di un ictus mentre il figlio Bartolomeo detto Indiano è sparito tra le pieghe della Milano clandestina del terrorismo e dei proclami nascosti nei covi.
Ora la Cinquecento bianca e la cucina Salvarani azzurrina che sembravano intonarsi così bene allo spicchio di cielo azzurro che si vedeva dall’appartamento di ringhiera in via Porpora non rappresentano più un passaporto per la felicità. Sono i giorni dell’estate 1982, quando l’Italia in Spagna si avvia a diventare campione del mondo, eppure in quella stanzetta dove Regina è ricoverata il presente è cristallizzato in un eterno passato.
Quello di Lupo non è un romanzo sociologico ma una breve cavalcata sentimentale condotta con uno stile piano e naturale in cui l’elemento fantastico, a lui caro, è ridotto a un soffio che agita il quotidiano. Se alle figure femminili lo scrittore attribuisce il compito del racconto e della memoria, a quelle maschili riserva l’azione giocando però su una differenziazione sapiente. La figura di Indiano è vuoto e assenza, vive e agisce nelle parole dei famigliari, bastando il ruolo di paradigma di una generazione a infondergli spessore e vita, mentre Luis è carne e sangue, balli (« se strisci i piedi è mazurka, se salti è polka»), meccanica, progresso e slogan («A Milano si campa a nafta e a ciminiere, per le vie di Milano con Api si vola, metti un tigre nel motore»), ottimismo della volontà che, però, non basta contro le ragioni della storia.