Corriere della Sera - La Lettura
Ecco i contadini «cartaginesi»: zappano il mare per coltivare il sale
Mestieri Lo Stagnone è un feudo di terra siciliana concessa in usufrutto al Mediterraneo, abitato dai fenici e oggi da colonie di fenicotteri
Sono chiamati «cartaginesi» senza mai esserlo stati gli abitanti della provincia estrema d’Occidente di Sicilia. È quella di Trapani. E i salinari che sembrano marinai in realtà sono contadini. Stanno spesso a torso nudo, indossano pantaloncini, sempre abbronzati tanto forte è il sole del sale ma sono agricoltori.
Lo Stagnone è un feudo di terra concesso in usufrutto al mare. È sbagliato, infatti, dire «estrazione» riguardo al sale. Questo frutto, più correttamente, si coglie. E tutta la fatica è in realtà uno scambio di ruoli tra le onde e le zolle. Nelle vasche dei salinari, quel prezioso raccolto che dà sapore e sapienza si coltiva e non è una cosa da andare a strappare a un filone di miniera.
Anche lo zolfo, se fa testo Antonio Aniante, e lo fa — La rosa di zolfo, Sellerio — impone le incursioni in giardino ma ancor più terricola, a Mozia, è la magia anfibia di barche e trattori. La strada romana che affiora a pelo d’acqua, il percorso dove i camion s’incrociano con i battelli in transito, porta la scienza rurale in laguna e viceversa ma la tecnica — quello zappare — è tutta agricola, giammai marinara. Il cristallo del sale è un giglio. È un
ciuri tra i ciuri di Sicilia. E gli stessi strumenti dei salinari — osservateli attentamente — sono come quelli della campagna. Hanno vanghe da far sprofondare con la forza del piede. Quel poco di mare, recintato nelle chiuse, se ne va via intanto col sole e con il vento forte e caldo mentre il coltivare dei salinari indugia nella pazienza, nel metodo e nella speranza del bel tempo.
Il sale è messo a dimora in cumuli alti tre metri e lunghi fino a dieci. Sono ricoperti di tegole in terracotta collocate a forma di tetto a scongiurare la stagione della pioggia, quando una sola goccia basterebbe a far svanire tutto quel granaio di nitore e i mucchi, inquadrati in un ordine tutto razionale, sembrano dei silos di semenze collocati accanto alle vasche.
La sovrapposizione di terra e mare proclama l’inversione d’orizzonte e i cumuli, allora, diventano come vivai. Serre dove la modernità — è già successo nelle campagne — ha portato l’orrida plastica dei cesti in sostituzione del vimine ma che il lavoro dell’uomo innesta nel rito eterno: il sudore.
C’erano i fenici nel luogo dove gli uomini vanno a prendersi il sale. È lo stesso posto dove i fenicotteri si alzano in volo. Gli uccelli sono i veri padroni di casa del litorale di Mothia, sono colorati di rosa perché nutriti dal pigmento salino, lì vi nidificano e alle pale del mulino a vento porgono il loro saluto quando le coppie dei viaggiatori vanno a prendervi alloggio per fare l’amore.
E non avete idea della notte trascorsa in laguna: il sale, la luna e tu, giusto a parodiare Venezia ma la laguna dei trapanesi ha un sovrappiù di chic, è un privilegio del grand tour, forse anche un’abbagliante biancore di gesso con cui pittare quello smarrimento tutto di poesia.
Ecco, appunto: va a chiudersi la giornata. Fa come uno schizzo — giusto uno sbaffo — il fenicottero rosa quando plana. Tocca solo per un istante la pappa di sale acquitrinosa delle saline e poi risale. Per disegnare con tutto lo stormo dei suoi, appresso a lui, la preghiera per l’auriga che venne in soccorso a Patroclo scannato da Ettore.
Il cielo di Sicilia — tra Marsala e Trapani, presso l’isola di San Pantaleo
— respira di struggente intimità. Si chiude la giornata lavorativa, gli operai delle saline ripongono carriole, pale e stivali. Al parcheggio è già un via vai — uno scambio — tra chi nelle saline vi lavora e chi, nella missione sentimentale, vi arriva da visitatore.
Il mare di Sicilia rinuncia ai flutti sontuosi per un’esistenza d’impieghi operosi nella laguna dello Stagnone. Vi affiora come campagna e la bellezza non si ritrae, anzi. È la parte stretta intorno alla proprietà che fu dei Whitaker arrivati agli inizi del Novecento al seguito del capostipite Joseph e perfino i nastri trasportatori — con la scacchiera segnata da canali in tutto quel pantano di biacca, soda e panna di cloruro — svelano agli occhi un’apnea di raggiante felicità.
Fa come uno schizzo, il fenicottero in volo. È un lesto schiaffo al liquore bianco e tutte quelle fenici dalle ali di porpora al suo seguito, tutte radunate al brillio del tramonto, stridono di commozione.
Ecco il canto dei fenicotteri rosa in omaggio al ragazzo portato da Selinunte a Mozia dai cartaginesi nel 409 a.C e poi ritrovato negli scavi del 1979: «Oh santa giovinezza messaggera di Cipro e di Eros/ giovinezza che troneggi sulle ciglia delle vergini/ e nei languidi sguardi di un bell’efebo;/ giovinezza che dolcemente ci culli nelle tue braccia,/ e sai anche accendere i nostri sensi».
Magnifico è il cunto che si fa su Mozia. Salvo Piparo che dà voce alle Favo
le del mare descrive la mattanza guerriera di cui lo sguardo marmoreo del giovinotto (custodito nel Museo Whitaker a Mozia) riferisce tutto lo strazio.
Il cuntu è il canto del pesce grande che mangia quello piccolo. Patroclo si finge Achille, Ettore gli si avventa contro. Il troiano smaschera l’inganno del greco e lo affetta, ne profana il corpo. Ed è in quel momento che interviene l’auriga — l’efebo Alcimedonte — che lo raccoglie da terra per salvare al greco, se non la vita, il corpo.
Nel lutto, ancora una stilla di luce. Lo stridio degli uccelli va incontro ai vapori di sale. C’è vento e c’è caldo. Anche le allodole, le gazze e i cardellini, nel rassettarsi della natura, hanno un vocio da offrire.
Gli operai delle vasche conoscono ogni urto di canto. Omero è la dimora degli antichi, lo Stagnone — ancorché meccanizzato nella catena di raccolta, come nell’organizzazione dell’ospitalità — è il racconto cui Piparo, il cunti
sta, ricapitola il resoconto dei secoli: «Affiora dal mare su di un carro, a guida vi è un giovane auriga, di una limpida bellezza sommerso per troppo tempo dentro un’antica città fenicia, esplorata da tutti, mercanti, poeti, siculi e santi». Una volta ci arrivò, allo Stagnone, Franco Franchi. Si chiamava ancora Benenato, era piccolo d’età e sciancato di fame vera. Ed esplorava. Se ne tornò a Palermo con un coppo di sale. Lo scaraventò tutto dentro una pentola dove stavano a cuocere i maccheroni per la pausa pranzo delle donne della lavorazione tabacchi. Sperava che così salati li lasciassero nel piatto per poi mangiarseli lui ma era così tanta l’altrettanta fame delle donne — raccontava Franco, ormai benestante — che se li succhiavano quei maccheroni, senza neppure gustarli, senza masticarli, incuranti di cercarvi un sapore. Esclusi e vinti rispetto alla sapidità.
Ecco, il sale. È il sudore della madre terra. Ed è una stilla di ciuri, il senso acceso dei sensi.