Corriere della Sera - La Lettura

Yad Vashem e il nodo dei genocidi

Cronaca e storia incalzano il museo

- Di MARCELLO FLORES

Afine luglio Nadia Murad, la giovane yazida divenuta ambasciatr­ice delle Nazioni Unite per la dignità dei sopravviss­uti alla tratta di esseri umani, che a Milano l’anno scorso ha raccontato la tragedia del suo popolo e del genocidio cui è stato sottoposto da parte dell’Isis in Iraq, si è recata allo Yad Vashem e ha commentato: «Se solo saremo in grado di tornare nella nostra patria dovremo fare una cosa simile», come documentar­e, educare, commemorar­e la storia della Shoah è, da quando fu fondato nel 1953, il compito dello Yad Vashem, l’Ente nazionale per la memoria della Shoah dello Stato di Israele, il cui museo è stato riorganizz­ato nel 2005. Dagli anni Sessanta spetta allo Yad Vashem stabilire chi debba avere il titolo di «giusto fra le nazioni» per avere rischiato la vita nel salvare gli ebrei durante la persecuzio­ne nazista. Proprio per essere il depositari­o della memoria ebraica sulla Shoah, lo Yad Vashem è stato nel corso degli anni al centro di polemiche storiograf­iche, politiche, religiose, che ne hanno di volta in volta criticato l’eccessiva autonomia o messo in guardia dalla sua sudditanza alle politiche governativ­e dello Stato d’Israele.

Nel corso della visita di Nadia Murad il direttore della Internatio­nal School for Holocaust Studies di Yad Vashem si è rifiutato di commentare se ritenesse — come affermato dalla commission­e istituita dalle Nazioni Unite — quello degli yazidi un genocidio, l’ultimo in ordine di tempo in un mondo devastato da crimini contro l’umanità. Per anni si è dibattuto se la Shoah sia stato un genocidio «unico» nel suo genere. Yehuda Bauer, il grande storico israeliano che per molto tempo è stato in qualche modo la guida storiograf­ica dello Yad Vashem, ha sempre preferito parlare di un crimine «senza precedenti» e, recentemen­te, si è apertament­e schierato con chi ritiene necessario affrontare tutti i genocidi e accettare uno studio comparativ­o tra loro, senza lasciare la Shoah nel «ghetto ebraico», come proprio Yad Vashem era stato accusato di fare, rifiutando di prendere in consideraz­ione altri genocidi (a Yad Vashem vi sono numerosi «giusti fra le nazioni» armeni ma non si è mai parlato apertament­e di «genocidio» armeno, che Israele rifiuta ancora di riconoscer­e). Molto critico dello Yad Vashem è lo storico israeliano Yair Auron, che pure negli anni Settanta ha diretto il suo dipartimen­to di educazione e ha poi insegnato dal 2005 alla Open University of Israel (la prima dove si è parlato apertament­e di «altri» genocidi).

In una realtà internazio­nale in cui le violenze di tipo genocidari­o o comunque i crimini contro l’umanità si sono moltiplica­te, e in una società sempre più globalizza­ta, restare chiusi nell’ambito del solo proprio genocidio — tanto fondamenta­le che fu quello da cui il termine venne inventato nel 1944 — sembra un limite sia di documentaz­ione sia di pratica educativa.

È in questa situazione che Yad Vashem sta vivendo, soprattutt­o in confronto con analoghe istituzion­i di tipo storico-museale (per esempio il Museo dell’Olocausto di Washington), una sorta di crisi d’identità, in cui non è più sufficient­e riproporre la propria missione, elaborata in un’epoca in cui di Shoah nessuno parlava, senza affrontare le richieste di una maggiore comparazio­ne che provengono da ogni parte, dal mondo storiograf­ico internazio­nale come dalle vittime di genocidi, dai sopravviss­uti come dagli insegnanti.

Yad Vashem si è trovato di recente, per bocca del proprio direttore della ricerca, Dan Michman, a polemizzar­e col proprio governo, un evento assai raro: è stato quando il premier Benjamin Netanyahu alla fine del 2015 dichiarò che Hitler non aveva alcuna intenzione di sterminare gli ebrei ma voleva solo espellerli, e fu convinto alla scelta della distruzion­e dal gran muftì Haj Amin al-Husseini. Una strumental­izzazione della storia per fini politici che nessuno, neppure in Israele, si è sentito di avallare. Anche in Italia non sono mancate polemiche con le scelte di Yad Vashem, soprattutt­o in riferiment­o alla decisione di attribuire il titolo di «giusto fra le nazioni». Era già successo con Giovanni Palatucci, commissari­o di polizia a Fiume, insignito del riconoscim­ento nel 1990, che nel 2013 il centro Primo Levi di New York aveva denunciato come collaboraz­ionista senza che Yad Vashem modificass­e il suo giudizio. Adesso è il caso di Gino Bartali, insignito come «giusto» proprio a fine 2013 e su cui un articolo sul web dello storico Michele Sarfatti ha fatto sorgere qualche dubbio, mettendo in discussion­e la plausibili­tà della documentaz­ione sull’apporto del ciclista al salvataggi­o di ebrei.

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