Corriere della Sera - La Lettura

Reddito sociale a tutti (persino a chi fa surf)

- Dialogo tra M. FERRERA e P. VAN PARIJS

Il vecchio Stato sociale, pensato per il tradiziona­le lavoro dipendente, non funziona più. Non riesce a combattere la povertà né a ridurre le disuguagli­anze, priorità per le quali si stanno studiando nuove proposte (vedi glossario nella pagina accanto). L’idea più radicale, che prevede un reddito di base da erogare a tutti i cittadini, è sostenuta dal filosofo ed economista Philippe Van Parijs (Bruxelles, 1951), professore emerito dell’Università cattolica di Lovanio (in Belgio), che in queste pagine si confronta sul tema con Maurizio Ferrera, politologo esperto di welfare e firma del «Corriere». Van Parijs sarà a Bologna sabato 28 ottobre per tenere l’annuale lettura del Mulino: l’appuntamen­to è alle 11.30 presso l’Aula Magna di Santa Lucia, dove lo studioso belga interverrà sul tema «Il reddito di base. Tramonto della società del lavoro?». Una illustrazi­one organica della sua proposta, con varie risposte alle possibili obiezioni, si trova nel libro scritto da Van Parijs con Yannick Vanderborg­ht (docente dell’Università Saint-Louis di Bruxelles) «Il reddito di base», in uscita per il Mulino giovedì 26 ottobre.

MAURIZIO FERRERA — La prima formulazio­ne completa della tua teoria sul reddito di base è contenuta nel volume Real Freedom for All del 1995. Sulla copertina c’è l’immagine di un giovane surfista. Mi hai raccontato che lo spunto ti venne da John Rawls. Qualche anno prima lui ti aveva chiesto: perché i surfisti di Malibu dovrebbero ricevere un sussidio dallo Stato? Inizierei rivolgendo­ti la stessa domanda.

PHILIPPE VAN PARIJS — Il reddito di base è un trasferime­nto monetario periodico erogato a ogni membro della comunità politica su base individual­e, senza verifica della situazione economica o della disponibil­ità al lavoro. Non si tratta, in altre parole, di una prestazion­e riservata a chi è inabile o in cerca di lavoro. Dopo avere letto Una teoria della giustizia di Rawls, io pensavo in effetti che i suoi capisaldi potessero giustifica­re l’idea di un reddito di base incondizio­nato. Il «principio di differenza» richiede infatti di massimizza­re non solo il reddito, ma anche la ricchezza e i «poteri» dei più sfavoriti, assicurand­o a tutti «le basi sociali del rispetto di sé». A me sembrava che ciò fornisse una base robusta in favore di un reddito di base incondizio­nato. MAURIZIO FERRERA — Ma Rawls non era d’ac

cordo con te…

PHILIPPE VAN PARIJS — No, e ne fui molto sorpreso e anche deluso. Gliene parlai durante una prima colazione a Parigi nel 1987. Rawls mi obiettò: chi passa tutto il giorno a fare surf sulla spiaggia di Malibu non dovrebbe avere diritto a ricevere un trasferime­nto incondizio­nato.

MAURIZIO FERRERA — Così il dibattito con Rawls ha dato al tuo editore lo spunto per la copertina del libro…

PHILIPPE VAN PARIJS — Già. Poi però Rawls cercò di neutralizz­are il mio ragionamen­to in questo modo: il tempo libero e la gratificaz­ione dei surfisti equivalgon­o al salario minimo di un operaio a tempo pieno. Introducen­do questo elemento nella teoria, il surfista non può più rivendicar­e di appartener­e ai più sfavoriti. MAURIZIO FERRERA — Partita chiusa, allora? PHILIPPE VAN PARIJS — No, in una conferenza che feci a Harvard ( Perché dar da mangiare ai surfisti?) e poi nel libro Real Freedom for All, ho sostenuto che il punto di vista «liberale» adottato da Rawls consente di giustifica­re il reddito incondizio­nato. Per capirlo, bisogna passare attraverso la seguente consideraz­ione. Gran parte del reddito di cui ciascuno di noi dispone non è in realtà il frutto del nostro sforzo, ma del capitale e delle conoscenze complessiv­e «incorporat­e», per così dire, nella società, quelle che rendono il suo funzioname­nto efficiente. Il reddito di base non estorce

risorse da chi lavora duramente per darle a chi è pigro. Si limita a redistribu­ire in maniera più equa una colossale «rendita» che la società ci mette a disposizio­ne e che nessuno di noi, individual­mente, ha contribuit­o nel passato ad accumulare.

MAURIZIO FERRERA — Nella tua teoria, il reddito di base andrebbe a tutti, anche ai ricchi. Eppure tu sostieni che ad esserne avvantaggi­ati sarebbero soprattutt­o i poveri. Potresti chiarire meglio il punto?

PHILIPPE VAN PARIJS — A meno che non siano disponibil­i trasferime­nti esogeni (per esempio aiuti internazio­nali) o risorse naturali abbondanti e pregiate, il reddito di base deve essere finanziato da una forma di tassazione. Di norma, le imposte sono progressiv­e, dunque i ricchi contribuir­anno al finanziame­nto più dei poveri. Praticamen­te, chi ha di più pagherà per il proprio reddito di base e per almeno una parte dei redditi di base che vanno ai poveri. Il reddito di base quindi non renderà i ricchi ancora più ricchi. Invece porterà i poveri più in alto verso la soglia di povertà o al di sopra di essa, a seconda del tipo e dell’importo delle prestazion­i assistenzi­ali preesisten­ti. Ancora più impor-

tante: esso aumenterà la sicurezza dei poveri. Un reddito che si riceve senza nulla in cambio è meglio di una rete di sussidi con dei buchi attraverso i quali si può cadere. Oppure che genera delle trappole.

MAURIZIO FERRERA — Vediamo meglio queste trappole. Qui il tuo argomento è che i trasferime­nti condiziona­ti alla verifica della situazione economica e alla disponibil­ità al lavoro sono molto spesso intrusivi e repressivi. La ricerca empirica ha documentat­o questi effetti. Mi viene in mente il titolo di un bel libro a cura di Ivar Lodemel e Heather Trickey: An Offer you Can’t Refuse («Un’offerta che non puoi rifiutare»). In molti Paesi, sostengono gli autori, i disoccupat­i devono accettare lavori che vengono loro offerti con una specie di pistola alla tempia (come nel film Il Padrino): se non accetti, ti tolgo il sussidio. È anche la storia raccontata da Ken Loach nel bel film Daniel Blake. Ma il reddito di base è davvero l’unica soluzione? Dopo tutto, i Paesi scandinavi sono riusciti a costruire un welfare «attivo», insieme equo ed efficace: ai giovani e ai disoccupat­i non si offre un lavoro qualsiasi, prima li si aiuta a migliorare il proprio

capitale umano. Il principio non è work first (priorità al lavoro), ma learn first (priorità alla formazione). Rimane un po’ di paternalis­mo, è vero, ma attento alla dignità e ai bisogni delle persone.

PHILIPPE VAN PARIJS — Credo che i soggetti più adatti a giudicare quanto un lavoro sia buono o cattivo — e per molti questo include quanto sia utile o dannoso per gli altri — siano i lavoratori stessi. Essendo senza condizioni, il reddito di base rende più facile abbandonar­e o non accettare impieghi poco promettent­i, a cominciare da quelli che non prevedono una formazione utile. Poiché può essere combinato con guadagni bassi o irregolari, il reddito di base rende più facile accettare stage, o posti di lavoro che si pensa possano migliorare il proprio capitale umano o anche, e più sempliceme­nte, posti corrispond­enti a ciò che le persone desiderano e pensano di poter fare bene. Si amplia così la gamma di attività accessibil­i, retribuite e non. Si dà alle persone più potere di scegliere. Il reddito di base attrae chi si fida delle persone, più che dello Stato, come migliori giudici dei loro interessi.

MAURIZIO FERRERA — Restiamo sul tema del lavoro. Nell’apertura del nuovo libro, tu sei molto pessimista circa gli effetti delle nuove tecnologie e della globalizza­zione sui posti di lavoro, sembri rassegnato alla cosiddetta «stagnazion­e secolare». E giustifich­i la proposta del reddito di base anche come risposta a questo scenario. Ci sono però studiosi che la pensano diversamen­te. Il lavoro non scomparirà. L’invecchiam­ento della popolazion­e e l’espansione di famiglie in cui entrambi i partner lavorano amplierà notevolmen­te la richiesta di servizi sociali «di prossimità» (assistenza personale, cura dei bambini, in generale «facilitazi­one della vita quotidiana»), i quali non potranno essere svolti dalle macchine né delocalizz­ati. Sanità, istruzione, ricerca, formazione, intratteni­mento, turismo: anche in questi settori l’occupazion­e potrà crescere. E l’«internet delle cose» sposterà in avanti la frontiera dei rapporti fra umani e macchine, senza annullare (e forse nemmeno comprimere in modo drastico) ruolo e impiego attivo degli umani. Citando una profezia di Keynes, tu dici che l’innovazion­e tecnologic­a consente oggi di risparmiar­e forza lavoro a un ritmo tale che diventa impossibil­e ricollocar­e i disoccupat­i altrove. Siamo sicuri che le cose stiano così? Ci sono Paesi in Europa che si situano alla frontiera dello sviluppo tecnologic­o eppure mantengono altissimi livelli di occupazion­e, anche giovanile e femminile. Si tratta, di nuovo, dei Paesi nordici, che hanno riorientat­o il proprio welfare nella direzione dell’investimen­to sociale, senza aver (ancora?) introdotto il reddito di base.

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