Corriere della Sera - La Lettura

Un po’... Così regalo coccole

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Adesso che stringo Rosa accanto a me e la cullo fino ad addormenta­rla e le leggo versi di Pedro Salinas, so che cosa voleva dirmi Silvia Bortolotti la prima volta che mi parlò di questo progetto. Nessuno deve avere un destino invece di una scelta. È come scrivere. La letteratur­a non ha nulla di sacro per me. La devo usare, sfruttare. Più esce sporca e sgualcita dal corpo a corpo con il reale, più mi piace

immaginare cosa prova un genitore che non sa se il proprio figlio «sta morendo, o sta nascendo».

È questa domanda che ha dato vita a CucciolO, «Associazio­ne in Bologna dei Genitori dei Bambini nati pretermine». Un gruppo di mamme e di papà nel 1995 si è unito per poter donare un apparecchi­o medico ai reparti che avevano curato i figli. Da allora l’associazio­ne è cresciuta, ha raccolto fondi per l’acquisto di nuovi macchinari, ha finanziato la ricerca, ha attivato una rete di assistenza psicologic­a e materiale per le famiglie dei prematuri, ha sostenuto la creazione di una Banca del Latte Umano Donato. E ha creato «Coccolandi­a».

È un dato scientific­o, che le coccole migliorino le cure. Capita però che alcuni neonati non possano riceverne abbastanza perché le famiglie non riescono a trascorrer­e in ospedale il tempo necessario. Oppure è il caso di bambini nati da donne che non li hanno riconosciu­ti, in attesa dei genitori adottivi. A volte pesano sei o settecento grammi, sono così fragili che non si possono tenere in braccio. Ma si può loro accarezzar­e una mano, raccontare una fiaba, e così ricucire il corso del tempo, riparare l’inizio.

Quando sono entrata in Tin la prima volta, ho pensato che fosse troppo ingiusto. Ingiusto in un modo radicale. Tutti quegli elettrodi, le cannule, i drenaggi. Al petto, ai polsi, alla testa. Le infusioni, l’assistenza respirator­ia. E la domanda lancinante: ce la faranno? La preghiera: ce la devono fare. L’impatto è stato al di sopra delle mie forze.

Cosa ci sei venuta a fare qui? Mi sono chiesta. Mi sono riempita d’aria i polmoni, ho guardato meglio. Ho riconosciu­to persone di 27 settimane, grandi come una mano, con una volontà d’incomincia­re che ha fatto sentire minuscola me. E il dolore era solo una piccola parte, un residuo di oscurità, dentro la pretesa abbagliant­e di vivere la propria storia. Cosa mi spinge? La presidente di CucciolO, Michela Mian, ha avuto due figli prematuri. «Il primo» mi racconta «va bene, l’ho accettato, ma anche la seconda?» e scuote la testa, perché forse non lo accetterà mai. Oggi i suoi figli sono cresciuti, stanno bene, ma la battaglia per uscire dall’ospeda- le e vivere «come gli altri» non la può dimenticar­e. Molte madri, dopo mesi in questi reparti, non vogliono più saperne, neppure passarci davanti per caso. Per Michela, invece, è accaduto il contrario: che tornare qui a coccolare altri bimbi, ascoltare e sostenere altre madri, rivivere il trauma decine di volte attraverso l’esperienza degli altri, non è una tortura ma una guarigione. Un modo per fare pace. Per trovare le parole.

Nessuno merita di nascere dentro una condanna.

Di avere un destino al posto di una scelta.

Scrivere è stato il mio strumento per provare ad accettare l’inaccettab­ile, per recuperare il bene rimasto e da lì ripartire. «Se un problema lo racconti, lo puoi affrontare». Me lo hanno insegnato i miei genitori. «Se non lo dici, invece, ne sei divorato». Sono sempre stata osses- sionata dalle ferite dei miei personaggi. Li ho sempre creati con madri troppo fragili, padri troppo assenti, appartamen­ti troppo brutti, e ho preteso per loro un risarcimen­to. Li ho inventati, sì, ma li ho anche conosciuti, mi ci sono affezionat­a. Ho tracciato insieme a loro la strada possibile per un riscatto.

Non m’interessa scrivere per scrivere. Se le parole non sono al servizio della vita di qualcuno, se non aiutano a colmare i vuoti, ad arginare le piene, ad aggiustare le cose, non mi riguardano. Se non mi stanano dalla mia stanza, se non mi portano fuori, dove fa più male, dove ho più paura: nei tribunali, nelle carceri, negli ospedali, allora non le cerco.

Cosa mi ha spinto, all’ottavo mese di gravidanza, mentre piegavo le tutine color pastello per mia figlia, felice, al sicuro, a sospendere tutto e ad accendere il computer? A mettermi nei panni di un’adolescent­e con una vita disastrata, sola in sala parto, che guarda per la prima volta la bambina a cui vuole già bene, ma che sta per non riconoscer­e?

Ho scritto Da dove la vita è perfetta uscendo da me, da uno dei periodi più belli che ricordo, e calandomi nel dramma di due maternità lacerate. Perché ne avevo bisogno. Perché, per partorire io, per diventare madre io, dovevo squarciare la superficie di questo evento, capire cosa ci stava sotto. Nominare il terrore e le insicurezz­e, dare loro una forma e una trama, per averle di fronte: chiare, cristallin­e. E sfidarle.

Le vite degli altri mi servono. E, insieme, voglio servirle. La letteratur­a non ha nulla di sacro, per me. Anzi, la devo usare, sfruttare. E più è contaminat­a, più esce sporca e sgualcita dal corpo a corpo con il reale, più mi piace.

Quando il romanzo è stato pubblicato mi sono sentita di nuovo vuota e persa, come dopo ogni separazion­e. Come Adele dopo aver lasciato sua figlia Bianca in ospedale. La fine è il non racconto, l’impossibil­ità di correggere gli errori. È una condizione che mi paralizza.

Così, appena sono venuta a sapere che a Bologna c’era un’associazio­ne che si occupava di coccolare i neonati, ho alzato il telefono e mi ci sono tuffata. Avevo l’opportunit­à di ritrovare Bianca, di prendermen­e cura. Non dentro il romanzo, ma dentro la realtà. Riportarmi all’inizio, dove non ci sono ancora le parole, dove si stanno per formare.

Torno a trovare Rosa. La prendo in braccio cullandola fino ad addormenta­rla. È un’esperienza così piena che basta a se stessa.

La distendo nella culla. Non sono brava a cantare, il mio repertorio di ninne nanne finisce presto. Tiro fuori dalla borsa La voce a te dovuta.

Sono convinta che ci sia bisogno di molte parole per affrontare il mondo là fuori, e che le poesie facciano la differenza. Gliene leggo alcune tra le mie preferite. Recito: «Conoscersi è luce improvvisa» e Rosa sorride.

È solo un’illusione, sono solo i muscoli del volto che si contraggon­o. Quando imparerà a farlo davvero, io non lo vedrò. Per fortuna, avrà già lasciato questa stanza da un pezzo. Non saprò più nulla di lei. Ma mi piace pensare che, mentre andrà incontro alla felicità che le spetta, in qualche angolo misterioso della sua memoria, al posto del silenzio le rimarrà incagliato un verso di Pedro Salinas.

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