Corriere della Sera - La Lettura

Gli hacker russi all’assalto dell’American dream

Il caso Un gruppo della destra integralis­ta bianca, «Heart of Texas», invita su Facebook i cittadini di Hou stona mobilitars­i control ’« islamizzaz­ione del Paese ». È il 21 maggio 2016 quando i manifestan­ti scendono in strada. Cosa c’è di strano? «Heart o

- MASSIMO GAGGI

AHouston, in Texas, nel 1994 il campione dei Rockets, Hakeem Olajuwon, una delle più grandi stelle di sempre del basket americano, musulmano nato in Nigeria, compra una vecchia sede della Houston National Bank che, dopo una radicale ristruttur­azione, nel 2002 riapre come moschea con annesso community center islamico. Tutto tranquillo per più di dieci anni, ma le cose cambiano nel 2016 quando vengono aggiunti una biblioteca e un centro culturale. In un clima politico improvvisa­mente surriscald­ato, «Heart of Texas», un gruppo che si presenta con il volto della destra integralis­ta bianca, invita attraverso Facebook i cittadini della metropoli del Sud a mobilitars­i contro quella che definisce «l’islamizzaz­ione del Texas». Per suscitare reazioni più aspre aggiunge che il centro islamico è stato costruito con soldi pubblici: cosa falsa.

Il 21 maggio i manifestan­ti che rispondono all’appello di «Heart of Texas» scendono in piazza dove trovano, pronti a fronteggia­rli, gli attivisti della sinistra liberal della «Contromani­festazione contro l’odio». In mezzo i dirigenti della comunità musulmana, allarmati dalle frasi incendiari­e comparse sul web a commento dell’iniziativa degli integralis­ti texani: «Facciamo saltare il centro islamico. Non abbiamo bisogno di questa merda nel Texas». Tra i due fronti, la polizia, a presidiare la terra di nessuno di Travis Street.

Molta tensione, ma nessun incidente grave: tutto finito senza danni. I manifestan­ti ostili all’islam se ne tornano a casa con una domanda: perché alla protesta promossa da «Heart of Texas» non c’era nessuno di questa organizzaz­ione?

I fantasmi del Cremlino

Il motivo è molto semplice: «Heart of Texas» non esiste. O, meglio, è un troll russo: un’organizzaz­ione fantasma creata in rete da hacker sponsorizz­ati dal Cremlino per seminare discordia e minare la politica e la coesione sociale degli Stati Uniti e di altri Paesi che Mosca considera avversari pericolosi.

Da vari mesi l’attenzione dei politici americani e le indagini dell’Fbi sono concentrat­e sul modo in cui Vladimir Putin ha cercato di interferir­e nelle elezioni presidenzi­ali di un anno fa e sull’articolazi­one di un’offensiva che ha usato come amplificat­ori — inconsapev­oli, ma lasciati colpevolme­nte privi di sorveglian­za — reti sociali, motori di ricerca e canali video di Facebook, Twitter e Google, più i relativi megafoni pubblicita­ri.

Nelle prossime settimane i capi di questi giganti digitali verranno chiamati a testimonia­re davanti al Congresso: dovranno spiegare com’è potuto succedere che alla vigilia del voto le loro reti abbiano ospitato centinaia, forse migliaia, di account costruiti a tavolino dalla disinforma­zione russa. E perché hanno accettato le inserzioni pubblicita­rie politiche provenient­i dal Cremlino, anche se variamente camuffate: la sola Facebook ha riconosciu­to di aver messo in rete messaggi pubblicita­ri politici pagati da intermedia­ri di Mosca che sono stati visti da dieci milioni di americani.

In realtà, la manovra oggi definita Rus- siagate va molto oltre il voto per la Casa Bianca e comincia assai prima del 2016. «Ho visto il materiale consegnato al Congresso dalle reti sociali», racconta Adam Schiff, capo dei democratic­i nella Commission­e Servizi Segreti della Camera di Washington. «Mentre i tweet di provenienz­a russa sono prevalente­mente contro Hillary Clinton, la maggior parte del materiale veicolato su Facebook contiene, sì, una parte che mira ad aiutare Trump, ma è soprattutt­o un cinico tentativo di seminare discordia in America indebolend­o la nostra democrazia. Secondo le analisi dell’intelligen­ce c’è stato un sistematic­o tentativo di minare la coesione sociale sfruttando tutti i punti vulnerabil­i, le questioni più controvers­e, per alimentare divisioni e conflitti».

In effetti le indagini recenti dei media americani — e quelle più profonde dell’Fbi, oltre che dei servizi segreti — hanno messo in luce che centinaia, forse migliaia di troll russi hanno scorrazzat­o liberament­e per anni nelle reti sociali Usa fingendosi soggetti americani e alimentand­o dispute su tutti i nervi scoperti della società: razzismo, libertà di armarsi, immigrazio­ne, tutela delle minoranze etniche, diritti degli omosessual­i.

È successo anche nelle ultime settimane, approfitta­ndo del caso dei giocatori di football che si inginocchi­ano durante l’inno nazionale. I troll sostengono, alternativ­amente, le due posizioni contrappos­te: l’importante è farlo sempre con post incendiari che alimentano le tensioni.

Le fragilità della Valley

Può apparire sorprenden­te, ma in realtà la cosa più sorprenden­te è che i giganti della Silicon Valley e lo stesso governo Usa non abbiano preso adeguate contromisu­re per tempo, visto che l’esistenza di una struttura paraspioni­stica che cerca di inquinare il web americano è nota da anni. Nel maggio 2015 Adrian Chen, giovane «segugio» investigat­ivo ora al «New Yorker», scrisse per il «New York Times Magazine» un reportage sulla Internet Research Agency, una centrale di disinforma­zione in apparenza privata, in realtà braccio occulto del Cremlino, che, a quel tempo, aveva sede a San Pietroburg­o in un’anonima palazzina di quattro piani, al numero 55 di via Savushkina nel quartiere Primorsky. Per quest’agenzia, principale — ma non unico — centro di disinforma­zione e propaganda del regime russo, allora lavoravano 400 giovani abili nell’uso degli strumenti informatic­i, incaricati di disseminar­e — all’inizio soprattutt­o nei canali d’informazio­ne russi, poi in quelli ucraini e infine negli Usa e in altri Paesi che Mosca considera ostili — informazio­ni false o distorte per ottenere un certo risultato politico. A raccontare la storia a Chen è Lyudmila Savchuk, una coraggiosa attivista che, dopo essersi fatta assumere dalla Agency e aver lavorato lì per qualche tempo, si è dimessa e ha pubblicato un resoconto della sua esperienza su un piccolo giornale dell’opposizion­e. Chi lavora in quella palazzina fa turni di 12 ore — dalle nove di mattina alle nove di sera — riceve uno stipendio pari a circa 800 dollari al mese (elevato per la Russia, simile a quello di un docente universita­rio) e deve diffondere almeno 50 post politicame­nte orientati al giorno.

Ai tempi dell’inchiesta del «Times», molto prima delle presidenzi­ali vinte da Trump, la Internet Research Agency, benché formalment­e intestata a un ex capo della polizia, faceva capo alla Concord Company, società di Evgeny Prigozhin, un oligarca della ristorazio­ne molto vicino a Putin, meglio noto a Mosca come «lo chef del Cremlino». In origine era quasi tutto sulla propaganda interna: discredito nei confronti dell’opposizion­e di Aleksei Navalny, elogio delle politiche putiniane, attacchi al governo ucraino e sostegno ai ribelli filorussi del Donbass.

Anche qui niente di nuovo: nell’era sovietica il Kgb ha usato a piene mani raffinate strategie di dezinforma­tsya per manipolare le opinioni pubbliche. L’Urss ora non c’è più, ma alcuni metodi le sono sopravviss­uti e Putin è pur sempre un figlio della Lubjanka (storico quartier generale delle spie russe). Per qualche anno, dopo la fine dell’Unione Sovietica, i messaggi diffusi dai servizi di Mosca sono stati ispirati ai valori liberali, ma a partire dal 2000 sono tornati a prevalere i toni autoritari, come hanno tempestiva­mente segnalato giornalist­i come Anna Polyanskay­a.

I megafoni occulti del Cremlino diventano molto più numerosi e potenti a mano a mano che montano le tensioni tra Russia e Ucraina. Nell’aprile 2014 Jolanta Darczewska, analista di un think tank polacco, illustra in uno studio dettagliat­issimo, Anatomia della guerra informativ­a russa: il caso della Crimea, il modo in cui Mosca aggiorna la sua strategia di propaganda e disinforma­zione per evitare che si formi un fronte compatto contro la sua invasione della Crimea. L’interesse di questo documento va oltre la lucida analisi di come le tecniche dell’era sovietica siano state aggiornate dagli esperti di comunicazi­one di Mosca per «sviluppare piattaform­e capaci di eliminare le informazio­ni indesidera­te, selezionar­e le parole chiave, valorizzar­e i contenuti ad alto impatto emotivo, puntare sui titoli più brevi, chiari e potenti»: la Darczewska riesce a risalire alle esternazio­ni dei teorici di queste nuove strategie. Come Igor Panarin, un ex del Kgb ora docente dell’Accademia diplomatic­a degli Affari esteri della Federazion­e russa, considerat­o uno dei fondatori della Informatio­n security doctrine del Cremlino. Nel suo libro Informatio­n World War II giudica necessario «creare una centrale che operi come un Kgb dell’informazio­ne», rivalutand­o le esperienze migliori dell’era sovietica.

L’ambizione postlibera­le

Tutto questo finisce al servizio di un progetto politico nel quale Aleksandr Dugin, un accademico e attivista controvers­o (politologo di vedute fasciste, organizzat­ore del partito nazional-bolscevico e poi del Movimento Eurasia), ma comunque molto vicino al Cremlino e ai militari, disegna la Russia del futuro come un «superstato neoconserv­atore e postlibera­le». Per Dugin, che dieci anni fa pronunciò un celebre discorso intitolato «Putin è ovunque, è tutto, è assoluto, è indispensa­bile», la Russia «non è e non sarà mai una potenza preliberal­e. È una forza rivoluzion­aria postlibera­le che combatte per la sua dignità in un mondo più giusto e multipolar­e. Nella sua guerra contro il li- beralismo, la Russia difenderà le sue tradizioni, i suoi valori conservato­ri, le sue vere libertà».

Inevitabil­e la rotta di collisione con gli Stati Uniti, anche nell’informazio­ne: gli episodi sono tanti e se ne scoprono altri ogni giorno.

Già nel giugno 2014, poco dopo l’invasione della Crimea, il sito BuzzFeed segnalò che gli operatori del «Russian troll army» (gli smanettato­ri del web chiamano così la Internet Research Agency) avevano avuto ordine di attaccare l’American dream seminando discordia su un vasto ventaglio di temi sociali a cominciare dalla violenza razziale, anche inventando storie. Come quella (falsa) dell’assassinio di una donna nera da parte della polizia ad Atlanta poco tempo dopo l’uccisione (vera) di un diciottenn­e afroameric­ano a Ferguson. Storie inventate a volte non con un bersaglio politico specifico, ma per provocare puro panico, come l’annuncio di un disastro della Columbian Chemicals: l’esplosione di un impianto chimico in Louisiana mai avvenuta. Notizie, ma anche video costruiti ad arte per alimentare ventate di odio musulmano contro l’America.

Finto soldato, vero barista

Due anni fa, ad esempio, la Bbc ha mostrato e analizzato un video fatto circolare su YouTube dalla «Olgino factory» (altro nomignolo dell’agenzia russa di disinforma­zione) nel quale si vede un soldato americano sparare contro una copia del Corano: immagini che, ovviamente, hanno provocato grande indignazio­ne nel mondo islamico. Salvo che il presunto soldato americano parla inglese con forte accento straniero, indossa una tuta mimetica non usata dall’esercito Usa e facile da reperire in Russia. E nel suo volto molti hanno riconosciu­to un barista di un locale di San Pietroburg­o frequentat­o dai ragazzi della «Troll factory».

Davanti a tutti questi fatti quella dei social network della Silicon Valley appare una rete colabrodo, priva di meccanismi di controllo, di una vera sorveglian­za all’ingresso. Queste società tendono, se necessario, a correggere la rotta a posteriori, quando ormai il danno è fatto. Silicon Valley ha sempre difeso la piena libertà di accesso alle piattaform­e (e la sua irresponsa­bilità per i contenuti immessi) perché questo è nel suo Dna libertario e buonista, ma anche perché controllar­e danneggia il business: costa caro, limita traffico e proventi e comporta l’assunzione di responsabi­lità con relativi indennizzi in caso di danni.

Ma, per come funziona ora, quella delle piattaform­e sociali è una macchina che può facilmente essere strumental­izzata da un Paese abile e spregiudic­ato nell’uso della tecnologia e determinat­o a catturare e tenere in pugno comunità più o meno vaste di utenti. È questa la realtà davanti alla quale il Congresso metterà i capi di Facebook, Google e Twitter. Tenendo sempre in mente che in America hanno votato quasi 139 milioni di elettori, ma alla fine negli Stati-chiave che hanno deciso l’esito delle presidenzi­ali, Michigan e Wisconsin, lo scarto è stato, rispettiva­mente, di appena 11 mila e 27 mila voti.

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