Corriere della Sera - La Lettura
Non regge il mito dell’Ottocento «secolo pacifico»
Guerre Oggi i conflitti sono meno numerosi, come nella parte iniziale del Basso Medioevo
La visualizzazione sulle guerre del passato e sui conflitti in corso mette chiaramente in evidenza alcuni aspetti riassuntivi e generali, ma non può riuscire a evidenziarne altri che riguardano le tipologie dei conflitti e la loro intensità. Ciò che balza immediatamente alla luce è il carattere particolarmente pacifico del periodo dal 1000 al 1200, e cioè circa la prima metà del Basso Medioevo; ma anche la parallela crescita dei conflitti e della globalizzazione, tra le guerre di fine Settecento e inizio Ottocento e quelle attuali, pur se la globalizzazione si manifesta con gran forza nel corso del «lungo» XIX secolo, entra in crisi e si blocca nell’epoca tra le due guerre mondiali e riprende successivamente con una brusca accelerata a partire dagli anni Ottanta del XX secolo.
Per lungo tempo, con uno sguardo eccessivamente eurocentrico, si è parlato del XIX secolo come di un lungo periodo di pace, grosso modo tra il Congresso di Vienna e la Prima guerra mondiale, pur se non mancarono conflitti tra Stati (tra Francia e Prussia soprattutto) o conflitti che oggi chiameremmo civili, come quelli delle rivoluzioni del 1848 e della «primavera dei popoli» che contraddistinse il biennio successivo. Se però si guarda anche fuori dall’Europa, ci si accorge che di pacifico l’Ottocento non ha avuto molto, anche se solo poco più del 20 per cento dei suoi conflitti sono avvenuti in Europa, compresa la Russia. È nelle Americhe (quella meridionale delle lotte per l’indipendenza nazionale e quella settentrionale della guerra civile a metà secolo) e in Asia (India, Cina, Giappone, dove hanno luogo conflitti antimperiali, ma anche interstatali, come quelli ripetuti tra il Sol Levante e il Paese di Mezzo) che si ha il maggior numero di conflitti e anche di vittime. E non va comunque dimenticato che è proprio nell’Ottocento che prende avvio la svolta giuridica che introduce nel diritto internazionale il tema della guerra (il diritto umanitario, i crimini di guerra) e che si dà vita a quelle istituzioni internazionali (la Croce Rossa) che avrebbero cercato di «umanizzare» per quanto possibile i conflitti armati.
L’aumento dei conflitti è stato, per rimanere nell’ultimo periodo storico esaminato dal diagramma, l’Ottocento e Novecento, fortemente legato alla disgregazione degli imperi e all’imporsi degli Stati nazionali: anche se è soprattutto dopo la Prima guerra mondiale che questo processo accelera a più riprese, visto che all’inizio del XX secolo oltre il 50 per cento della popolazione mondiale era governata dai
grandi imperi esistenti. Il rapporto diretto tra indipendenza nazionale e guerra si sviluppa in un primo momento nell’America del Sud, successivamente in Asia e solo più tardi in Africa, anche se trova la sua conclusione nella dissoluzione dell’Urss e della Jugoslavia, che vede, accanto ai nuovi Stati che ne emergono come eredi territoriali, lo scoppio di numerosi e ripetuti conflitti armati.
Sono state naturalmente le due guerre mondiali, e in particolar modo la seconda, a far fare all’insieme dei conflitti un salto di qualità dal punto di vista del numero di Paesi coinvolti, della distruzione fisica dei territori, della quantità delle vittime e dell’intensità della violenza messa in atto. Ma è dopo il Secondo conflitto mon- diale che si accelera una tendenza già presente prima e cioè l’aumento delle guerre civili ( intrastate) rispetto a quelli tra Paesi diversi ( interstate). L’aumento impetuoso dei conflitti civili è legato al processo di decolonizzazione e ai suoi esiti e, come si è già accennato, alla disintegrazione del blocco comunista nelle sue diverse articolazioni. Dagli anni Settanta del XX secolo le guerre civili sono circa l’80 per cento e crescono ancora successivamente, anche se nel nuovo secolo sono scese a rappresentare circa il 65 per cento delle guerre nel loro insieme. La tendenza si è manifestata in modo crescente fino al 1991 e poi si è fermata, con una diminuzione dei conflitti interni agli Stati.
Le guerre che sono state prese in considerazione nel diagramma rispondono a requisiti e parametri che i principali istituti di ricerca hanno cer- cato di stabilire e di rendere omogenei o simili il più possibile. Uno di questi parametri consiste nel prendere in considerazione un conflitto solo quando vi sono stati almeno mille morti in un anno. Questa scelta di individuazione (inevitabile, anche se poteva essere diversa) esclude, ad esempio, dal novero dei conflitti del Novecento la guerra civile irlandese, sia nella sua manifestazione nel corso degli anni Venti sia in quella che riesplode negli anni Settanta e trova soluzione solo negli anni Novanta. In questo modo, secondo le stime di gran parte degli studiosi, dal riconoscimento ufficiale delle guerre vengono espunti i cosiddetti conflitti a bassa intensità, che hanno, cioè, un numero di vittime inferiore a quello stabilito. In tal modo, però, non si riesce a prendere in considerazione addirittura l’80 per cento dei conflitti degli ultimi ven- t’anni e il 70 per cento dei conflitti che si sono avuti tra il 1960 e il 1990.
Ugualmente problematico è calcolare il numero delle vittime: ed è su questo che si hanno le maggiori diversità tra gli istituti di ricerca. Col tempo, a partire dall’inizio del Novecento, è cresciuto proporzionalmente sempre di più il numero delle vittime civili dei conflitti (anche interstatali) rispetto alle vittime militari: anche se in molti casi le vittime civili «indirette», quelle legate a carestie, malattie, ecc., non sono state prese in considerazione (per esempio le vittime dell’influenza «spagnola» dopo la Prima guerra mondiale) mentre in altri casi sì (le carestie cinesi legate al Grande balzo in avanti o alla Rivoluzione culturale). Ultimamente alcuni studiosi hanno parlato di «leggenda metropolitana» riguardo al fatto che il 90 per cento delle vittime dei conflitti attuali siano state e siano civili, rimarcando che è sempre meno facile operare una distinzione in passato certamente più semplice.
Negli ultimi vent’anni i dati permettono di concludere in modo abbastanza netto che è diminuito il numero delle guerre, si è affievolita la loro intensità ed è calato drasticamente il numero delle vittime coinvolte. Anche se emerge con altrettanta nettezza un dato in controtendenza: dopo la forte diminuzione delle spese militari tra il 1988 e il 1998, queste sono aumentate a ritmo crescente fino a oggi.