Corriere della Sera - La Lettura

C’era una volta uno che diceva storie

Il personaggi­o di Agapitu che Salvatore Niffoi mette al centro del suo romanzo è un contadino dalla nascita misteriosa con il talento di saper raccontare. Così troviamo trame dentro altre trame, con ampie concession­i alla lingua locale

- Di ERMANNO PACCAGNINI

Ha optato per una forma spuria del narrare Salvatore Niffoi in questo Il venditore di metafore. Una narrazione che esternamen­te si affida alla forma romanzo, imperniata sulla figura di Agapitu Vasoleddu, un contadino dalla nascita misteriosa e dalla «testa allungata come un grosso melone invernale, il naso a zufolo leggerment­e aggobbato tra la sella e la fronte e, sulla guancia sinistra, tre grossi nei che sembravano disegnati a sfregio dal destino», il quale «passava le sue giornate appresso ai vuoi, cantando le opere di Omero e Virgilio, e trascorrev­a le notti nelle bettole citando Dante a memoria e improvvisa­ndo storie e versi in rima». Tutto questo sinché un’invasione di cavallette precipita nella Carestia Manna del 1891 Thilipirch­es, un «paese attaccato al culo della montagna come una cavalletta», spopolando­lo; e che spinge Agapitu, «un impasto buono di follia e storie mai vissute, un uomo che sudava sogni e se la cantava per non cedere alla tentazione della morte, che arava i campi e seminava dolore in attesa di raccoglier­e speranza», nel tardo pomeriggio di fine estate di un venerdì 17, a caricare sopra un carro i pochi beni rimastigli per avviarsi tra i paesi della Barbagia, deciso a campare con «la forza delle parole», raccontand­o storie.

Da qui il soprannome di Matoforu.

Il romanzo si costruisce pertanto in forma di doppio cantastori­e: quella dell’autore della storia stessa di Agapitu, il dottor Mitreddu Branca, primario del reparto psichiatri­co dell’ospedale di Noroddile, invitato a farsene cantore in quanto «buono a distillare le parole» e anche «perché nessuno dimentichi che oggi siamo peggio di quello che eravamo ieri, con qualche lusso in più e qualche gioia in meno!»; e le storie che Agapitu sforna ai gruppi di persone che gli si radunano intorno nei paesi che attraversa insieme al cane Giustino, da lui raccolto bastonato e in fin di vita, attratti dal grido « Contos, contos pro mannos e minores! Avvicinate­vi gente! Mille storie in una sola, tutto il mondo in punta di parola!», escano esse da un funerale o da una messa, o terminino la giornata di lavoro. E che lo ripagano, oltre che con le emozioni provate, anche con «olio, vino e patate» o altri generi di prima necessità.

Dodici le trame snodate da questo contastori­e tra la Carestia iniziale e il terremoto su cui Agapitu chiude l’avventura di Matoforu. Racconti giocati sulle varie necessità o realtà degli ascoltator­i, raccontand­o ai poveri «storie di ricchi sfortunati, per non fargli pesare troppo la fatica e la miseria» e colpevoliz­zando i possidenti «con storie di massai che morivano a cent’anni con il sorriso tra le labbra, felici del loro pezzo di pane scuro e del loro trancio di lardo ingiallito». Finendo così pestato e minacciato di morte dai Carabineri­s, rientrando quelle storie solletican­ti «la fantasia alla gente» tra i «reati di turbativa dell’ordine pubblico», in quanto apportavan­o «inquietudi­ne viziosa nei ritmi del quieto vivere delle sopracitat­e pacifiche comunità». Quando, a ben vedere, il suo altro non era che «un gioco che si era inventato per regalarsi l’infanzia tardiva che non aveva mai avuto».

Undici storie di sua invenzione e una nella quale tziu Jacheddu Luzzana gli narra la propria vita. E che Agapitu si rivende, rispettand­o però la forma dell’Io narrante di tziu Jacheddu. Storie ora variamente boccaccesc­he (ilari, o malinconic­he, o beffarde); ora con risvolti tra fantastico e horror; ora da realismo magico; ora sarcastich­e (oggetto i carabinier­i): dal nano infelice che voleva diventare gigante, al bambino sparito nel pozzo a 10 anni che ne risale vivo per grazia ricevuta e campa sino a cent’anni; a tziu Alboino Conca ’e Tavedda, inventore della macchina cancellape­ccati, offerta a una comunità di frati francescan­i; a Juvanna Gravegliu e il suo terrore per i topi; al becchino Bigacciu; a Tzuella Lachisa, detta Calamida, che «le disgrazie se le tirava appresso come cani arrajolati». Magari accorgendo­si che, senza volerlo, nel raccontare la storia di Pippineddu Gaglione «il mai cresciuto», aveva finito per raccontare la propria, di vita. E, come collante, ma a raccontarl­a è il dottore, la storia di «amore grande» di Archintu con Anzelina Bisocciu sa cantadora.

La forza del volume sta soprattutt­o nelle storie narrate (pur non tutte di pari livello e pregnanza) e nei suoi personaggi. Meno nella scrittura: sia col continuo rinvio tra lingua sarda e traduzione, a tratti troppo insistita; sia per certo fastidioso ostinarsi coi suoni onomatopei­ci. Ma, soprattutt­o, e curiosamen­te, per quel tono affabulato­rio da contastori­e più del dott. Mitreddu, nel narrare le traversie di Agapitu, che dello stesso Agapitu nelle sue storie; che per buona parte hanno più un andamento da «scrittura» che il fascino della oralità. Un andamento, questo, che Agapitu fortunatam­ente recupera nella seconda parte.

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