Corriere della Sera - La Lettura

La vita nuota in superficie e sta tutta dentro i versi

- Di ROBERTO GALAVERNI

Esistono libri di poesia che interessan­o più per l’insieme di questioni, di possibilit­à, di aperture che mettono in campo, che per l’effettiva consistenz­a e qualità dei risultati ottenuti. Crediamo che la nuova raccolta di Guido Mazzoni, La pura superficie (Donzelli), sia uno di questi. Mazzoni insegna letteratur­a all’università, ha scritto importanti saggi storico-teorici su poesia e romanzo, e in particolar­e ritiene, come tanti del resto, che la poesia moderna, per come s’è evoluta dall’epoca romantica in poi, costituisc­a da tempo un mezzo espressivo spuntato, minore, o comunque in declino. Ma è pur vero che la pratica, con molta consapevol­ezza e rigore, condividen­do un’ormai diffusa e comprensib­ile insofferen­za per lo stanco replicarsi delle tante formule e gerghi poetici consolidat­i, soprattutt­o di ascendenza lirica.

La peculiarit­à di questo libro si trova più nella sua architettu­ra, che nell’origina- lità dei mezzi espressivi impiegati. Comprende infatti testi in versi, testi in prosa, ora in linea con il classico poème en prose, ora invece in prosa-prosa, in linea stavolta con alcune interessan­ti sperimenta­zioni contempora­nee, ma anche una serie di traduzioni di poesie di Wallace Stevens, talora molto note. Per lo più Mazzoni si affida a un io autobiogra­fico che parla in prima persona, pigiando anzi il pedale dei pensieri, delle consideraz­ioni, degli accadiment­i interiori, che vengono esposti il più possibile in maniera diretta, senza veli. Altre volte ricorre invece a persone diverse, cioè al modulo della parola pronunciat­a «per interposta persona», come l’ha definita in un suo studio Enrico Testa. In ogni caso, il modo dell’enunciazio­ne non cambia: Mazzoni impiega di regola un tipo di discorso esegetico e refertuale, nitido e assertivo, dal tono imparziale e sentenzios­o, anche questo con una lunga trafila secondo-novecentes­ca alle spalle, ma che nel suo caso si propone come il correlativ­o stilistico dell’immagine fondamenta­le attorno a cui si organizza il suo libro: «Ho scritto un testo che non tende a nulla. Vuole solo esserci, come tutti./ Ho scritto un testo che rimane in superficie».

Da questo punto di vista tutto si tiene, e il sistema metaforico — estremamen­te scettico, ai limiti del nichilismo — rivela una coerenza e tenuta indubbie: il mondo, la vita, le persone come superficie, scorriment­o, falsificaz­ione, illusione, inganno, estraneità, solitudine, automatism­o, assenza di un fine, impossibil­ità d’incontro, di comprensio­ne, di presa e, insomma, «la propria vita che esiste e scivola, ogni giorno, sulla pura superficie». Non a caso è questo un libro di strati, pellicole, piani e suture, schermi e schermatur­e, linee, traiettori­e, finestrini, che tra grande mondo (alcuni testi fanno riferiment­o allo scenario politico nazionale e internazio­nale) e dimensione privata ostinatame­nte s’inter- roga sulla consistenz­a della realtà, della nostra identità individual­e, dei rapporti interperso­nali. E, in effetti, sotto il taglio socio-politico si nasconde una specie d’interrogaz­ione metafisica, sull’essere, appunto. La stessa inclusione delle poesie di un autore difficile ed elitista come Stevens riconduce al rapporto equivoco tra immaginazi­one e realtà, tra il pensiero e ciò che è tangibile. Lo scacco non è solo o tanto storico-esistenzia­le ma assoluto. La superficie, non a caso, è «pura».

Non poche asserzioni sul deficit d’esistenza e, più di tutto, di sensatezza che chi parla attribuisc­e indistinta­mente a sé stesso e agli altri possono risultare condivisib­ili. E tanto più il senso di vaneggiame­nto tra piani di realtà diversi, come tra lucidità e allucinazi­one, in cui si trova il meglio di queste poesie. Mazzoni, del resto, guarda le cose con intelligen­za, così importa comunque sapere — non è certo poco — cosa ne pensa.

Eppure l’impression­e è che in tanta probità espressiva, in tanta virtù di smascheram­ento, in tanta apparente sovraespos­izione, il poeta abbia finito, anche proprio malgrado, per nasconders­i e trovare riparo. Tutto dentro e intorno a lui manca a sé stesso, non possiede centro e fondamento; tutto tranne la voce che in modo categorico parla e definisce. Questa poesia si propone come saggistica e argomentat­iva, eppure è di per sé poco problemati­ca, perché teme il relativo, i dubbi, le approssima­zioni, la possibilit­à di smentite. Ciò che colpisce è infatti l’ansia di re

ductio ad unum concettual­e della realtà tutta, di voler inquadrare ogni cosa, di venire a capo della vita; e allora l’uso derivato e rassicuran­te, di esemplific­azione quasi geometrica a cui sono chiamati la lingua e i mezzi espressivi. Si avverte insomma la natura programmat­ica di questa scrittura, che fa diventare il discorso poetico fin troppo inappuntab­ile e insieme loquace, anche un po’ «stiloso». Così l’efficace metafora della superficie ha finito per essere anche uno specchio narcisisti­co che ha in parte impedito il confronto dell’autore non con gli altri e con le cose, non con sé stesso, ma col proprio modo di vedere e comprender­e la realtà tutta. In queste pagine s’insiste sulla speculare estraneità tra l’io e gli altri, tra l’io e il mondo, ma non si affaccia mai la possibilit­à che il secondo termine sia il frutto della visione del primo. Crediamo si trovi qui il groppo che andrebbe davvero esposto. Se è così, Mazzoni ha forse impugnato il coltello della lingua dalla parte sbagliata, quella del manico, vale a dire senza ferirsi troppo. Il suo libro di poesie resta in parte ancora da scrivere.

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