Corriere della Sera - La Lettura
La vita nuota in superficie e sta tutta dentro i versi
Esistono libri di poesia che interessano più per l’insieme di questioni, di possibilità, di aperture che mettono in campo, che per l’effettiva consistenza e qualità dei risultati ottenuti. Crediamo che la nuova raccolta di Guido Mazzoni, La pura superficie (Donzelli), sia uno di questi. Mazzoni insegna letteratura all’università, ha scritto importanti saggi storico-teorici su poesia e romanzo, e in particolare ritiene, come tanti del resto, che la poesia moderna, per come s’è evoluta dall’epoca romantica in poi, costituisca da tempo un mezzo espressivo spuntato, minore, o comunque in declino. Ma è pur vero che la pratica, con molta consapevolezza e rigore, condividendo un’ormai diffusa e comprensibile insofferenza per lo stanco replicarsi delle tante formule e gerghi poetici consolidati, soprattutto di ascendenza lirica.
La peculiarità di questo libro si trova più nella sua architettura, che nell’origina- lità dei mezzi espressivi impiegati. Comprende infatti testi in versi, testi in prosa, ora in linea con il classico poème en prose, ora invece in prosa-prosa, in linea stavolta con alcune interessanti sperimentazioni contemporanee, ma anche una serie di traduzioni di poesie di Wallace Stevens, talora molto note. Per lo più Mazzoni si affida a un io autobiografico che parla in prima persona, pigiando anzi il pedale dei pensieri, delle considerazioni, degli accadimenti interiori, che vengono esposti il più possibile in maniera diretta, senza veli. Altre volte ricorre invece a persone diverse, cioè al modulo della parola pronunciata «per interposta persona», come l’ha definita in un suo studio Enrico Testa. In ogni caso, il modo dell’enunciazione non cambia: Mazzoni impiega di regola un tipo di discorso esegetico e refertuale, nitido e assertivo, dal tono imparziale e sentenzioso, anche questo con una lunga trafila secondo-novecentesca alle spalle, ma che nel suo caso si propone come il correlativo stilistico dell’immagine fondamentale attorno a cui si organizza il suo libro: «Ho scritto un testo che non tende a nulla. Vuole solo esserci, come tutti./ Ho scritto un testo che rimane in superficie».
Da questo punto di vista tutto si tiene, e il sistema metaforico — estremamente scettico, ai limiti del nichilismo — rivela una coerenza e tenuta indubbie: il mondo, la vita, le persone come superficie, scorrimento, falsificazione, illusione, inganno, estraneità, solitudine, automatismo, assenza di un fine, impossibilità d’incontro, di comprensione, di presa e, insomma, «la propria vita che esiste e scivola, ogni giorno, sulla pura superficie». Non a caso è questo un libro di strati, pellicole, piani e suture, schermi e schermature, linee, traiettorie, finestrini, che tra grande mondo (alcuni testi fanno riferimento allo scenario politico nazionale e internazionale) e dimensione privata ostinatamente s’inter- roga sulla consistenza della realtà, della nostra identità individuale, dei rapporti interpersonali. E, in effetti, sotto il taglio socio-politico si nasconde una specie d’interrogazione metafisica, sull’essere, appunto. La stessa inclusione delle poesie di un autore difficile ed elitista come Stevens riconduce al rapporto equivoco tra immaginazione e realtà, tra il pensiero e ciò che è tangibile. Lo scacco non è solo o tanto storico-esistenziale ma assoluto. La superficie, non a caso, è «pura».
Non poche asserzioni sul deficit d’esistenza e, più di tutto, di sensatezza che chi parla attribuisce indistintamente a sé stesso e agli altri possono risultare condivisibili. E tanto più il senso di vaneggiamento tra piani di realtà diversi, come tra lucidità e allucinazione, in cui si trova il meglio di queste poesie. Mazzoni, del resto, guarda le cose con intelligenza, così importa comunque sapere — non è certo poco — cosa ne pensa.
Eppure l’impressione è che in tanta probità espressiva, in tanta virtù di smascheramento, in tanta apparente sovraesposizione, il poeta abbia finito, anche proprio malgrado, per nascondersi e trovare riparo. Tutto dentro e intorno a lui manca a sé stesso, non possiede centro e fondamento; tutto tranne la voce che in modo categorico parla e definisce. Questa poesia si propone come saggistica e argomentativa, eppure è di per sé poco problematica, perché teme il relativo, i dubbi, le approssimazioni, la possibilità di smentite. Ciò che colpisce è infatti l’ansia di re
ductio ad unum concettuale della realtà tutta, di voler inquadrare ogni cosa, di venire a capo della vita; e allora l’uso derivato e rassicurante, di esemplificazione quasi geometrica a cui sono chiamati la lingua e i mezzi espressivi. Si avverte insomma la natura programmatica di questa scrittura, che fa diventare il discorso poetico fin troppo inappuntabile e insieme loquace, anche un po’ «stiloso». Così l’efficace metafora della superficie ha finito per essere anche uno specchio narcisistico che ha in parte impedito il confronto dell’autore non con gli altri e con le cose, non con sé stesso, ma col proprio modo di vedere e comprendere la realtà tutta. In queste pagine s’insiste sulla speculare estraneità tra l’io e gli altri, tra l’io e il mondo, ma non si affaccia mai la possibilità che il secondo termine sia il frutto della visione del primo. Crediamo si trovi qui il groppo che andrebbe davvero esposto. Se è così, Mazzoni ha forse impugnato il coltello della lingua dalla parte sbagliata, quella del manico, vale a dire senza ferirsi troppo. Il suo libro di poesie resta in parte ancora da scrivere.