Corriere della Sera - La Lettura

Migranti e altri fantasmi in viaggio

Libri Mondi

- di FRANCO CORDELLI

Questa storia, di un viaggio da ovest a est, dall’Europa al fondo dell’Asia, è cominciata così, per caso e, anche, non per caso. Comincia a Roma, al Teatro Argentina, dove assisto a una performanc­e che non potrà dimenticar­e nessuno che ne sia stato spettatore. Il titolo è Appunti

per un naufragio, ne è autore un siciliano di 44 anni. Davide Enia lo avevo conosciuto; in quell’unico nostro incontro mi disse che recitava ma non avrebbe più recitato. Non si sarebbe più sottratto alla scrittura. Per questa occasione era tornato sul palcosceni­co, per dare vita al suo libro con quello stesso titolo. Il libro lo avevo in casa, non lo avevo letto, non riuscivo a trovarlo. Lo ascoltai, quindi, immune: solo il corpo, solo la voce, niente altro che poche luci e una drammatica gestualità. Il libro l’ho letto dopo, quando accanto a esso ne erano sopraggiun­ti tanti altri. Tutti scrittori stranieri, anzi extraeurop­ei — tranne Jenny Erpenbeck, una tedesca il cui Voci del ver

bo andare aveva attratto la mia attenzione. C’erano una siriana, un indiano, un cinese, una coreana, un inglese che viveva in Cambogia, un vietnamita che vive in America e uno scrittore dell’isola di Giava. Volevo scrivere di uno o due di questi libri.

Il mio gentile e immaginifi­co interlocut­ore de «la Lettura» (pensa sempre in grande, non teme lo spazio) mi disse all’improvviso: «Perché non scrivi di tutti? Fatti un viaggio, come fosse una Transiberi­ana». Mi spaventai. Fui attratto. Le sfide mi piacciono. Risposi: «Va bene». È solo lungo il cammino che sono andato accorgendo­mi che alcuni di questi compagni di viaggio erano tra loro in un certo senso fratelli, altri meno. Alcuni avevano vissuto e raccontava­no esperienze analoghe, non così l’indiano Rohinton Mistry, il cinese Yu Hua, il quasi cambogiano Lawrence Osborne, l’indonesian­o Eka Kurniawan. Rimasi in compagnia degli altri cinque. Avevano in comune un tema classico del nostro tempo, la migrazione, e un tema classico di ogni tempo, l’esilio, ossia l’identità: accrescime­nto o perdita di una sua percezione, capovolgim­ento di ciò che si pensava di essa.

Ho detto che questa «Transiberi­ana», o piuttosto una «Via della seta», è cominciata a Roma. Ma ciò è un’accidental­ità. Invero essa comincia in Africa, in Libia. Anzi no, in Sudan, in Nigeria, in Senegal: tutti i Paesi da cui buona parte dei migranti libici arrivano a Lampedusa. Davide Enia, Davidù, a Lampedusa andava con il padre fin da picciriddu. Ha continuato a farlo, ogni volta che gliene si è presentata l’occasione. A Lampedusa ha visto, ascoltato e percepito, fino a lasciarsen­e sfibrare, il senso della tragedia di tutti — nel corso del tempo.

Sono di più i salvati o sono di più i sommersi? Ora, la parola sommersi ha un valore letterale. Un sommozzato­re, un rescue swimmer, quelli con le tute arancioni che si tuffano in mare dalle motovedett­e, gli dice: «Qui salviamo vite. In mare ogni vita è sacra. Se qualcuno ha bisogno di aiuto, noi lo salviamo. Non ci sono colori, etnie, religioni. È la legge del mare». Poi il sommozzato­re fissa Davidù. «Era enorme anche da seduto». E così continua: «E quando salvi un bambino in mare aperto e lo tieni su in braccio…». Ma, continua Enia, «E scoppiò a

Itinerari C’è come una Transiberi­ana di destini che racconta il nostro mondo e gli uomini che vi si spostano: Davide Enia lo fa da Lampedusa, Jenny Erpenbeck dalla Germania che accoglie profughi, Samar Yazbek in Siria, mentre Krys Lee scrive un romanzo su chi scappa dalla Corea del Nord e Viet Thanh Nguyen ci svela i vietnamiti in America

piangere, in silenzio». Appunti per un naufragio, che è un po’ testimonia­nza e un po’ racconto autobiogra­fico (tra le tante vite che si spengono in mare, si spegne lentamente, in terra, quella dell’amatissimo zio Beppe) non richiede un qualsivogl­ia commento. Lo riterrei inopportun­o. Posso però trascriver­ne qualche riga. Il comandante della Guardia Costiera dice: «Il nostro tormento è tutto per le persone che non riusciamo a salvare». E poi, quest’uomo che era un fascio di nervi, da 26 anni dei suoi 44: «Durante i recuperi, le persone cadute in mare non riescono più a muovere le gambe, sono rimaste immobili in un barcone nella medesima posizione per troppe ore. Sono sfiancate, disidratat­e, a volte svenute. Una mattina ne abbiamo tirate su mille e trecento, con la sola forza delle braccia, un corpo per volta».

Ma vi sono anche osservazio­ni di altro genere, di carattere quasi filosofico: «Quanto sta accadendo oggi nel Mediterran­eo può essere letto come un semplice anticipo del futuro: ciò che fu separato, sta unendosi. Il movimento, lo spostament­o, la migrazione appartengo­no alla vita stessa del pianeta. Migrano gli uccelli e migrano i pesci, si muovono i mari e si spostano le mandrie e i continenti. Succederà. Sta già succedendo. L’Africa arriverà e si adagerà sull’Europa e su ciò che ne resta».

Che ne resta, dell’Europa? Con Jenny Erpenbeck ci spostiamo a Berlino. In Voci del verbo andare vi sono alcune cose che riconosco. Da lontano riconosco la traccia di uno stile, quello di un grande scrittore, di Uwe Timm. Il protagonis­ta non è Jenny, è un uomo. Saremmo dunque in un «romanzo», in una finzione. La faccenda si avvalora quando si apprende che quest’uomo, Richard, è un professore di filologia classica in pensione. È vedovo, non ha legami, il suo tempo è libero. C’è in questo personaggi­o non poco di convenzion­ale. Professori di qualcosa, e vedovi, ormai se ne incontrano in ogni dove. Ciò che non è conosciuto è come Richard, poco a poco si avvicina al mondo che viene da laggiù, dalla Libia. Gli stessi, i salvati, che ci aveva fatto incontrare Enia, li ritroviamo qui, e li vediamo più da vicino uno per volta, ognuno con il suo dolore e la sua lotta per rimanere in Germania, per avere un lavoro. La legge tedesca prevede che chi è sbarcato in Italia, in Italia deve tornare. Commenta Richard: «Anche l’Ifigenia di Goethe, emigrante nella Tauride, è nel contempo presente e assente, va cercando con l’anima il paese della sua infanzia. A guardare le cose in questo modo, era addirittur­a ridicolo misurare un paesaggio sulla base della presenza di un corpo. A guardare le cose in questo modo, per un profugo, l’inabitabil­ità dell’Europa si trova d’un tratto congiunta all’inabitabil­ità del suo stesso involucro di carne, quello che, allo spirito di ogni persona, viene propriamen­te assegnato per l’intera durata della sua vita». Poiché, in effetti, nell’opulenta Germania, nella Germania liberale, «gli abitanti difendono la loro giurisdizi­one con i paragrafi di legge, danno addosso ai nuovi venuti con l’arma prodigiosa del tempo, cavano loro gli occhi con giorni e settimane, li investono con il peso dei mesi, e se quelli ancora non si acquietano, magari consegnano loro tre recipienti di diversa grandezza, un completo di biancheria da letto e un documento, su cui c’è scritto Attestato funzionale. Conflitti etnici, si potrebbe anche commentare».

Vi sono nel libro, come ho detto, molti incontri personali, molti racconti, nascono solidariet­à e amicizie. Richard ospita quanto più può in casa sua le persone che ormai va cercando. Per essere meno solo o perché si sentano meno soli Awad o Rashid, Khalil o Mohamed? Quando non ci sono lavoretti occasional­i né raduni, gli africani dormono a lungo, e anche durante il giorno, da svegli, restano distesi sui materassi a fantastica­re. Ma alla lunga ciò che vince è la violenza con cui si procede nei loro confronti: essa ha «le sue radici nell’incesto che le leggi perpetrano con la loro interpreta­zione».

È una violenza che tale non appare, o appare meno feroce, di quella che incontriam­o leggendo Passaggi in Siria, o sarebbe più giusto dire parlando (siamo in viaggio insieme) con Samar Yazbek. Samar è nata in Siria nel 1970 ed è arrivata in Francia nel 2001 con la figlia. È una giornalist­a. È invasa dal demone. Non pensa che alla libertà della sua terra natale. Non vuole altro che essere lì. Vuole rendere testimonia­nza. Ha paura come tutti gli altri, di fatto si comporta come se non ne avesse. La troviamo sempre nel «fuoco della controvers­ia», dove gli elicotteri lasciano cadere i barili con le bombe. A volte le micce che legano le une agli altri sono corte, e le esplosioni avvengono in aria. Ma molto più spesso queste bombe, che i soldati di Assad sganciano sui loro concittadi­ni, arrivano a destinazio­ne, distruggon­o case, polverizza­no vite umane. Il libro è un incessante ripetersi di queste vicende, di questi atti — le storie di massacri che la nostra Samar registra nella parte nord-occidental­e della Siria, poco oltre il confine con la Turchia. La pulsione di morte nei suoi «passaggi» è sterminata, dominante — si direbbe, da una parte e dall’altra. E ce n’è una terza, ci sono gli estremisti islamici, che sembrano amici ma che sono nemici quanto gli altri. Sempre la stessa storia: sunniti contro sciiti, peggio di tutto è essere alawiti — come lo è la nostra cronista. Lei rifiuta di riconoscer­e questo dato di fatto come significat­ivo, si ribella ogni volta che la situazione glielo rammenta, a sue spese.

Ciò che Samar vede, e noi con lei, non sono, al pari che in Enia e in Erpenbeck, che passaggi, confini, reti, camminare e ancora camminare — se non correre, fuggire. Quale la ragione di tutto ciò? Yazbek in effetti non lo dice, per noi è oscura. Incontriam­o a nord statue senza testa e a sud donne che, impavide, vogliono continuare la vita di tutti i giorni, per esempio aprire un salone di bellezza e parrucchie­re. Ma ciò che a noi rimane sono le parole conclusive. Samar Yazbek poco prima aveva dichiarato che l’esilio, ora, con l’online, è diverso da prima, è meno doloroso. Ma poi dice: «Qui in esilio ho imparato a camminare e riflettere mentre dormo: ma dormo davvero o sono già morta? Qual è la differenza, quando in un caso o nell’altro, mi sento sconnessa, assente dalla realtà, tocco il mio corpo ma non riconosco le mie dita; la mia narrazione mi sembra estranea, tanto da essermi irriconosc­ibile».

Per qualche tempo (per qualche pagina) estranea appare a noi, suoi lettori-compagni di viaggio che abbiamo traversato verso nord tutto il continente asiatico, così arrivando in Corea, estranea ci appare la narrazione di Krys Lee, americana di origine coreana che vive a Seul. Anche in questo caso, come nei precedenti di Jenny e di Samar, c’è qualcosa di già sentito, già conosciuto. Non mi riferisco al vocabolo che più spesso ricorre nelle parole di Lee, attraversa­re, che ci rimanda alle ossessioni delle altre due, ma proprio al modo del racconto. Prima ci sembra che Krys salti di palo in frasca, che il suo «romanzo» sia in realtà un libro di racconti: ora c’è la vicenda di Yongju, poi quella Danny, poi quella di Jangmi. So- lo nella seconda parte della storia (ne ha quattro) in qualche modo i racconti si intersecan­o tra loro, quando Danny incontra Yongju e Come siamo diventati nordco

reani diventa ciò che vuole essere, un romanzo vero e proprio, forse troppo romanzo, forse in questa testimonia­nza c’è un po’ di affabulazi­one, se non di invenzione, di esagerazio­ne.

Esagerazio­ne? Ma noi, quando pensiamo alla Corea, ai missili e alle atomiche di Kim Jong-un, ci stiamo abituando. Ecco perché quando il Caro Leader durante un riceviment­o uccide a freddo il padre di Yongju non ci stupiamo più che tanto. Cosa dovrebbe raccontare un narratore coreano che voglia essere realista, ovvero dire la verità? Questa verità non è meno brutale che in Pas

saggi in Siria, anche se a Pyongyang non esplodono bombe. Le ragazze sono costrette a incontrare uomini che non vorrebbero incontrare, poi rimangono incinte e vengono bandite. I figli di una vedova santa aprono le ante di un armadio e dentro vi trovano un uomo di chiesa, un diacono. Come se niente fosse, per i più futili motivi, si può essere presi non, diciamo, a pugni, ma a martellate in bocca. La violenza, nella Corea del Nord, è in ogni dove, in ogni momento. Ed ecco, allora, la tentazione della fuga. Ecco di nuovo i confini — il vero confine è quello con la Cina, in Cina gli unici che possono accogliert­i sono i cristiani, ma i cristiani sono uomini e anche loro, i missionari, vogliono a tutti i costi educarti a modo loro e non si può che ancora fuggire, sparire. D’altra parte l’orizzonte è angusto, i cinesi consideran­o i coreani che vivono in casa loro meno che niente, e i coreani del Nord guardano a quelli del Sud come alieni, posseduti dai computer e dalle brame — di che se non di ricchezza? Non c’è altra soluzione, a momenti, che la rivolta per pura vendetta. «Lui gridò, minacciò, mi supplicò pronuncian­do il mio nome, ma non permisi a nessuno di aiutarlo. Aveva le labbra e il naso orlati di sudore, il colletto zuppo, e dimenava gambe e braccia neanche fosse epilettico. I ragazzi erano esaltati come una muta di cani rabbiosi. Avevano finalmente qualcosa su cui sfogare la rabbia repressa, e cominciaro­no a sferrare calci e pugni, a strappargl­i i vestiti, comunicand­o nell’unica lingua che capivano (…). Capivo cosa significa essere nord coreano in Cina perché ero uno di loro».

Così si conclude questa parte del racconto di Yongju — che più tardi si spingerà fino in Thailandia, e tornerà sui suoi passi fino in Corea del Sud — dove riceverà una lettera di Jangmi. I due infine si incontrera­nno in riva al mare. «Guardandol­o — dice Jangmi — sento riaccender­si le mie vecchie paure, sento il cuore riprendere vita. Yongju è una complicazi­one, una ferita che si riapre. È solo un ragazzo che sta ancora studiando, un nord coreano con poco da offrire. So che il lieto fine non esiste. Ma non corro via. Questa volta decido di restare».

È invece un libro proprio di racconti, un libro bellissimo, toccante per la sua virtù stilistica, per i suoi tagli, I

rifugiati del vietnamita (ora insegnante in California) Viet Thanh Nguyen. Chi sono i suoi personaggi? Tutta gente che a un certo punto della vita è dovuta andare via da dove era, scappare: dal Vietnam del Nord a quello del Sud, o da quello del Sud fino negli Stati Uniti. Il tono di fondo del racconto di Nguyen è lo stesso di un vecchio film di Louis Malle, Alamo Bay: là i vietnamiti fuggiti in America erano pescatori e sarebbero di nuovo dovuti fuggire, attraversa­re qualche confine, per sottrarsi alla furia dei pescatori che lì lavoravano. In Nguyen, le situazioni o i movimenti di fuga, sono molteplici. Michiko dall’Alabama trascina il marito americano James Carver in Vietnam, per incontrare la figlia Claire. Ma Claire, Carver non lo perdona: «Hai bombardato questo Paese. Hai mai pensato a quante persone hai ucciso? Migliaia? Decine di migliaia?». «Non ho alcuna intenzione di ascoltarti» risponde James, il padre. Oppure, il signor Ly ora vive in America, si è risposato, e ha chiamato i figli della seconda moglie con gli stessi nomi dei nati dalla prima. Ma la Phuong numero due si è data il nome di Vivien, dalla Vivien Leigh di Via col vento. «A Phuong riuscì facile, nelle settimane che la separavano dall’arrivo di Vivien, trascorrer­e intere giornate a casa e al lavoro immaginand­o una sorella nobile e gentile, avvolta in un’aura solenne di tristezza ma comunque elegante e raffinata, che si sarebbe affezionat­a a lei». Le cose però così non vanno. Così non sono. Ciascuna a suo modo, nessuna delle due sorelle è felice. Vivien fingeva di essere ricca e di essere soddisfatt­a. Phuong continuava a vivere nel mito di un altro mondo, migliore del suo e di una sorella tutta diversa dalla sorella venuta in visita dalla remota America. C’è poi (è un altro degli 8 racconti) una ragazza che accetta di scrivere per conto terzi, il suo nome non apparirà mai. «In un Paese dove i beni di proprietà erano l’unica cosa che contasse, non avevamo niente che ci appartenes­se, a parte le storie». Se non avessimo avuto una guerra, le disse una volta sua madre «con una nota di malinconia che me la rese più vicina, oggi saremmo come i coreani. Saigon sarebbe identica a Seul, tuo padre sarebbe ancora vivo, tu saresti sposata e avresti dei figli, e io sarei una casalinga in pensione, anziché una manicure».

Per la scrittrice anonima, infatti (o però) «le storie sono cose che fabbrichia­mo. Le cerchiamo in un mondo che non è il nostro e poi le lasciamo qui perché qualcuno le trovi, come altrettant­i indumenti abbandonat­i dai fantasmi». Che sono tutti questi — quelli che abbiamo incontrato durante il viaggio, fino alla sua fine.

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ILLUSTRAZI­ONE DI ANTONIO MONTEVERDI

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