Corriere della Sera - La Lettura
LeWitt è un po’ sbagliato
L’architetto olandese Rem Koolhaas per la prima volta allestisce una mostra. Lo fa a Milano, nel palazzo quattrocentesco della Fondazione Carriero, e l’artista con il quale si confronta, sfidando le imperfezioni, è l’americano del quale ricorrono i dieci
Rem, don’t be Italian! È l’architetto che della razionalità e della creatività all’apparenza senza emozioni ha fatto da tempo la propria cifra distintiva e la propria forza, doti che gli hanno fatto, tra l’altro, vincere il Pritzker dell’anno Duemila. Tocca inaspettatamente a Rem Koolhaas fare la parte del Gian Burrasca, del sovvertitore, del creativo-impreciso (all’italiana, appunto) nella mostra che la Fondazione Carriero di Milano dedica dal 17 novembre al 2 3 gi ugno a S ol L e Witt . S ì , LeWitt, l’artista americano capace, con Donald Judd, di concentrare nei suoi lavori i concetti di minimalismo, razionalismo, matematica, precisione, meccanicità. Al suo primo incarico come «cocuratore» di un’esposizione d’arte, Koolhaas ha così scelto — spiega in anteprima a «la Lettura» — di «puntare sulla diversità che si nasconde in ogni lavoro di LeWitt», una diversità che si ritrova in Between the lines, questo il titolo della mostra, tra gli scarabocchi dei Wall drawing (una sorta di «affreschi monocromi» contemporanei) come tra le barre di alluminio di Open Cube (in pratica, lo scheletro di un cubo) proposti a Milano.
Da qui, da questa idea di una felice imprecisione, l’accusa di voler essere appunto troppo italiano. Durante i lavori di allestimento l’accusa ironica è stata più volte lanciata a Koolhaas dal cocuratore della mostra, Francesco Stocchi, direttore artistico della Fondazione Carriero. E Koolhaas non l’ha mai rimandata al mittente. «Volevo una mostra in bianco e nero, dove tutto fosse giocato sulla luce degli spazi — spiega Stocchi — e invece è stato lui, ad esempio, a pretendere accanto alle più classiche Structure e Untitled in legno bianco o nero, un’altra grande scultura di un giallo limone vivissimo». Come è finita la querelle? «Staremo a vedere». Certo che è stato proprio allora che Stocchi è sbottato: « Rem, don’t be Italian! », non fare l’italiano! Certo è, anche, che questa accusa non deve avere sconvolto più di tanto Koolhaas, che già preannuncia: «È stata un’esperienza fantastica. Mi piacerebbe riprovarci, avere un’altra opportunità. Magari con Piero della Francesca, con Andy Warhol o con degli antichi manoscritti dell’islam».
L’offerta di fare per la prima volta da curatore è arrivata a Koolhaas un anno e mezzo fa, complice un elemento geografico, anzi due. La prima: «Rem vive e lavora in Olanda, come me — chiarisce Stocchi —e i nostri incontri, in tutto una quindicina in un anno e mezzo, un’ora al massimo di durata, sono sempre stati tra Schiphol, l’aeroporto internazionale di Amsterdam, e Rotterdam, dove ha sede l’Oma di Koolhaas e dove io sono curatore al Museum Boijmans van Beuningen. A volte ci siamo parlati durante i viaggi in macchina». La seconda: «Rem è molto milanese, specialmente da quando si occupa del progetto architettonico della Fondazione Prada».
La mostra alla Fondazione Carriero, in uno dei pochi edifici privati milanesi (tutto in mattoni di cotto) risalenti al Quattrocento, arriva oltretutto nel decennale della scomparsa di Solomon Sol LeWitt (1928-2007) e sin dall’inizio si è proposta «di offrire un punto di vista nuovo sulla pratica dell’artista» scegliendo sette Wall Drawing, 16 sculture (da Complex Form a Hanging Structures) e le fotografie Autobiography «che ne mettono in risalto l’ironia». Un altro elemento, l’ironia, che rende «diverso» il lavoro di LeWitt: «Abbiamo subito pensato a Koolhaas, indubbiamente un’autorità — ribadisce Stocchi — perché volevamo avere uno sguardo “alto” e “inconsueto” sul lavoro di LeWitt, ingiustamente definito privo di emozioni. Perché Rem ha sempre cercato di raccontare come l’architettura possa cambiare non solo lo skyline delle città ma anche i piccoli gesti quotidiani di ognuno di noi. In qualche modo si tratta della stessa idea di cambiamento nascosto che LeWitt voleva offrire con quei suoi lavori all’apparenza così uguali gli uni agli altri, così poco diversi».
Sin dall’inizio Koolhaas, a Milano di passaggio per un sopralluogo negli spazi di via Cino del Duca 4 (500 metri quadrati, sette sale, riadattati nel 1991 da Gae Aulenti), tiene a ribadire: «Questo è un lavoro mio. Lo studio Oma, il mio studio, non c’entra». E racconta perché ha detto sì: «Non ho mai conosciuto di persona LeWitt ma ho vissuto a New York negli anni Settanta e ho sperimentato quel clima e il cambiamento che LeWitt è stato capace di trasmettere con i suoi lavori. Il mio, in qualche modo, è stato un ritorno alle origini». Le sfide affrontate stavolta non sono piccole: «È affascinante — dice il direttore della Biennale d’architettura di Venezia del 2014 — scoprire che ogni opera di LeWitt possa cambiare sempre, da artista è stato capace di trovare il segreto dell’immortalità». In che modo? «Non tanto nell’idea di un’opera che rimane immobile nel tempo, quanto in una percezione variabile, differente da persona a persona. I suoi lavori non subiscono così il peso del tempo e nemmeno quello della nostalgia».
Tecnicamente la ricetta (fisica) proposta da Sol LeWitt è chiara: «L’opera è una manifestazione di un’idea. È un’idea e non un oggetto», diceva. Nel caso dei Wall Drawing, ad esempio, si tratta di un insieme di istruzioni (lasciate dall’artista e conservate dall’Estate of Sol LeWitt che ne gestisce l’eredità) e possono per questo essere installati più volte. Anche se non è poi così semplice: a Milano, per l’allestimento, ci sono due storici assistenti dell’artista (uno arrivato da Berlino, l’altro da Stoccolma, in tutto il mondo ce ne sono sette) che coordinano i lavori (6 persone, 6 ore al giorno, 5 giorni alla settimana) di un gruppo di studenti locali, scelti tra quelli dell’Accademia di Brera. In pratica, si è trattato di «indirizzare» sui muri di Casa Parravicini gli scarabocchi dei collaboratori secondo regole ben definite (iniziare dal punto più alto che si può raggiungere con la mano... le linee devono essere vicine senza toccarsi...). Regole che però, secondo Koolhaas, non hanno evitato l’approssimazione benché la loro regolarità geometrica le renda all’apparenza «basi» perfette per i suoi disegni a parete, moltiplicabili, trasformabili in semplici segni, replicabili in un numero infinito di forme bianche, nere o colorate. Il tutto destinato comunque a essere cancellato — a Milano ma anche nel resto del mondo — da un velo di calce bianca (in alternativa, le opere possono essere «solo» staccate).
Si è trattato di un lavoro di gruppo, dove l’imprecisione è diventata «giorno dopo giorno una realtà evidente», anche se «certi lavori sono talmente precisi da rivelare a fatica la differenza». Proprio quei lavori che non possono essere considerati sculture né opere pittoriche né strutture architettoniche; piuttosto forme in bilico tra bidimensionalità e tridimensionalità che talvolta sembrano voler sfidare la gravità: «È stato incredibile realizzare il suo Mirror Drawing, una delle poche opere su vetro di LeWitt, soprattutto perché l’abbiamo ricreata all’interno di uno spazio barocco, così distante da quello che comunemente pensiamo possa essere il gusto di LeWitt». Ed ecco che Koolhaas torna a essere architetto: «Non c’è molta differenza tra essere progettista, curatore, artista o fashion designer. L’importante è riuscire, con gli strumenti a disposizione, a dare una dimensione nuova, diversa, speciale a quello che si realizza». Perché, ribadisce, «penso che nell’idea di una similitudine del sapere si nasconda il segreto della modernità». Insomma, per LeWitt ma anche per Koolhaas, le regole contano ma è bello trasgredirle. Verrebbe quasi da dire: « Rem don’t be Italian! ». Anzi no: in fondo è bello scoprire la passione per l’imprecisione dell’architetto più concettuale (e preciso) del mondo.