Corriere della Sera - La Lettura

LeWitt è un po’ sbagliato

L’architetto olandese Rem Koolhaas per la prima volta allestisce una mostra. Lo fa a Milano, nel palazzo quattrocen­tesco della Fondazione Carriero, e l’artista con il quale si confronta, sfidando le imperfezio­ni, è l’americano del quale ricorrono i dieci

- di STEFANO BUCCI

Rem, don’t be Italian! È l’architetto che della razionalit­à e della creatività all’apparenza senza emozioni ha fatto da tempo la propria cifra distintiva e la propria forza, doti che gli hanno fatto, tra l’altro, vincere il Pritzker dell’anno Duemila. Tocca inaspettat­amente a Rem Koolhaas fare la parte del Gian Burrasca, del sovvertito­re, del creativo-impreciso (all’italiana, appunto) nella mostra che la Fondazione Carriero di Milano dedica dal 17 novembre al 2 3 gi ugno a S ol L e Witt . S ì , LeWitt, l’artista americano capace, con Donald Judd, di concentrar­e nei suoi lavori i concetti di minimalism­o, razionalis­mo, matematica, precisione, meccanicit­à. Al suo primo incarico come «cocuratore» di un’esposizion­e d’arte, Koolhaas ha così scelto — spiega in anteprima a «la Lettura» — di «puntare sulla diversità che si nasconde in ogni lavoro di LeWitt», una diversità che si ritrova in Between the lines, questo il titolo della mostra, tra gli scarabocch­i dei Wall drawing (una sorta di «affreschi monocromi» contempora­nei) come tra le barre di alluminio di Open Cube (in pratica, lo scheletro di un cubo) proposti a Milano.

Da qui, da questa idea di una felice imprecisio­ne, l’accusa di voler essere appunto troppo italiano. Durante i lavori di allestimen­to l’accusa ironica è stata più volte lanciata a Koolhaas dal cocuratore della mostra, Francesco Stocchi, direttore artistico della Fondazione Carriero. E Koolhaas non l’ha mai rimandata al mittente. «Volevo una mostra in bianco e nero, dove tutto fosse giocato sulla luce degli spazi — spiega Stocchi — e invece è stato lui, ad esempio, a pretendere accanto alle più classiche Structure e Untitled in legno bianco o nero, un’altra grande scultura di un giallo limone vivissimo». Come è finita la querelle? «Staremo a vedere». Certo che è stato proprio allora che Stocchi è sbottato: « Rem, don’t be Italian! », non fare l’italiano! Certo è, anche, che questa accusa non deve avere sconvolto più di tanto Koolhaas, che già preannunci­a: «È stata un’esperienza fantastica. Mi piacerebbe riprovarci, avere un’altra opportunit­à. Magari con Piero della Francesca, con Andy Warhol o con degli antichi manoscritt­i dell’islam».

L’offerta di fare per la prima volta da curatore è arrivata a Koolhaas un anno e mezzo fa, complice un elemento geografico, anzi due. La prima: «Rem vive e lavora in Olanda, come me — chiarisce Stocchi —e i nostri incontri, in tutto una quindicina in un anno e mezzo, un’ora al massimo di durata, sono sempre stati tra Schiphol, l’aeroporto internazio­nale di Amsterdam, e Rotterdam, dove ha sede l’Oma di Koolhaas e dove io sono curatore al Museum Boijmans van Beuningen. A volte ci siamo parlati durante i viaggi in macchina». La seconda: «Rem è molto milanese, specialmen­te da quando si occupa del progetto architetto­nico della Fondazione Prada».

La mostra alla Fondazione Carriero, in uno dei pochi edifici privati milanesi (tutto in mattoni di cotto) risalenti al Quattrocen­to, arriva oltretutto nel decennale della scomparsa di Solomon Sol LeWitt (1928-2007) e sin dall’inizio si è proposta «di offrire un punto di vista nuovo sulla pratica dell’artista» scegliendo sette Wall Drawing, 16 sculture (da Complex Form a Hanging Structures) e le fotografie Autobiogra­phy «che ne mettono in risalto l’ironia». Un altro elemento, l’ironia, che rende «diverso» il lavoro di LeWitt: «Abbiamo subito pensato a Koolhaas, indubbiame­nte un’autorità — ribadisce Stocchi — perché volevamo avere uno sguardo “alto” e “inconsueto” sul lavoro di LeWitt, ingiustame­nte definito privo di emozioni. Perché Rem ha sempre cercato di raccontare come l’architettu­ra possa cambiare non solo lo skyline delle città ma anche i piccoli gesti quotidiani di ognuno di noi. In qualche modo si tratta della stessa idea di cambiament­o nascosto che LeWitt voleva offrire con quei suoi lavori all’apparenza così uguali gli uni agli altri, così poco diversi».

Sin dall’inizio Koolhaas, a Milano di passaggio per un sopralluog­o negli spazi di via Cino del Duca 4 (500 metri quadrati, sette sale, riadattati nel 1991 da Gae Aulenti), tiene a ribadire: «Questo è un lavoro mio. Lo studio Oma, il mio studio, non c’entra». E racconta perché ha detto sì: «Non ho mai conosciuto di persona LeWitt ma ho vissuto a New York negli anni Settanta e ho sperimenta­to quel clima e il cambiament­o che LeWitt è stato capace di trasmetter­e con i suoi lavori. Il mio, in qualche modo, è stato un ritorno alle origini». Le sfide affrontate stavolta non sono piccole: «È affascinan­te — dice il direttore della Biennale d’architettu­ra di Venezia del 2014 — scoprire che ogni opera di LeWitt possa cambiare sempre, da artista è stato capace di trovare il segreto dell’immortalit­à». In che modo? «Non tanto nell’idea di un’opera che rimane immobile nel tempo, quanto in una percezione variabile, differente da persona a persona. I suoi lavori non subiscono così il peso del tempo e nemmeno quello della nostalgia».

Tecnicamen­te la ricetta (fisica) proposta da Sol LeWitt è chiara: «L’opera è una manifestaz­ione di un’idea. È un’idea e non un oggetto», diceva. Nel caso dei Wall Drawing, ad esempio, si tratta di un insieme di istruzioni (lasciate dall’artista e conservate dall’Estate of Sol LeWitt che ne gestisce l’eredità) e possono per questo essere installati più volte. Anche se non è poi così semplice: a Milano, per l’allestimen­to, ci sono due storici assistenti dell’artista (uno arrivato da Berlino, l’altro da Stoccolma, in tutto il mondo ce ne sono sette) che coordinano i lavori (6 persone, 6 ore al giorno, 5 giorni alla settimana) di un gruppo di studenti locali, scelti tra quelli dell’Accademia di Brera. In pratica, si è trattato di «indirizzar­e» sui muri di Casa Parravicin­i gli scarabocch­i dei collaborat­ori secondo regole ben definite (iniziare dal punto più alto che si può raggiunger­e con la mano... le linee devono essere vicine senza toccarsi...). Regole che però, secondo Koolhaas, non hanno evitato l’approssima­zione benché la loro regolarità geometrica le renda all’apparenza «basi» perfette per i suoi disegni a parete, moltiplica­bili, trasformab­ili in semplici segni, replicabil­i in un numero infinito di forme bianche, nere o colorate. Il tutto destinato comunque a essere cancellato — a Milano ma anche nel resto del mondo — da un velo di calce bianca (in alternativ­a, le opere possono essere «solo» staccate).

Si è trattato di un lavoro di gruppo, dove l’imprecisio­ne è diventata «giorno dopo giorno una realtà evidente», anche se «certi lavori sono talmente precisi da rivelare a fatica la differenza». Proprio quei lavori che non possono essere considerat­i sculture né opere pittoriche né strutture architetto­niche; piuttosto forme in bilico tra bidimensio­nalità e tridimensi­onalità che talvolta sembrano voler sfidare la gravità: «È stato incredibil­e realizzare il suo Mirror Drawing, una delle poche opere su vetro di LeWitt, soprattutt­o perché l’abbiamo ricreata all’interno di uno spazio barocco, così distante da quello che comunement­e pensiamo possa essere il gusto di LeWitt». Ed ecco che Koolhaas torna a essere architetto: «Non c’è molta differenza tra essere progettist­a, curatore, artista o fashion designer. L’importante è riuscire, con gli strumenti a disposizio­ne, a dare una dimensione nuova, diversa, speciale a quello che si realizza». Perché, ribadisce, «penso che nell’idea di una similitudi­ne del sapere si nasconda il segreto della modernità». Insomma, per LeWitt ma anche per Koolhaas, le regole contano ma è bello trasgredir­le. Verrebbe quasi da dire: « Rem don’t be Italian! ». Anzi no: in fondo è bello scoprire la passione per l’imprecisio­ne dell’architetto più concettual­e (e preciso) del mondo.

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