Corriere della Sera - La Lettura
Il drammaturgo liberal dialoga con il suprematista bianco
Chris Thorpe Scienziato mancato, performer per caso, è nato e vive a Manchester. In Italia arriva con un dittico ispirato al «pregiudizio di conferma»: perché diamo credito a teorie che supportano le nostre idee
Avrebbe voluto diventare uno scienziato. Invece, racconta Chris Thorpe, performer e drammaturgo, è inciampato «per caso» nel teatro: «Compilai un modulo di iscrizione errato e finii nel corso universitario sbagliato». Dal 1999, anno in cui ha debuttato su un palco con la Unlimited Theatre, compagnia di cui è tra i fondatori (ma fa anche parte del gruppo Third Angel), non si è più fermato. Considerato una delle voci più importanti della nuova drammaturgia britannica, Thorpe è nato e vive a Manchester, dove è artista associato del Royal Exchange Theatre. Quest’anno è stato selezionato come uno dei tre Jerwood New Playwrights per il Royal Court Theatre di Londra, dove è in scena con il nuovo testo Victory Condition (diretto da Vicky Featherstone, direttore artistico del Royal Court). In Italia arriva grazie all’intuizione di Jacopo Gassmann, che ha tradotto e curato la regia di There Has Possibly Been an Incident (2013) e Confirmation (2014). Il dittico si potrà vedere al Palladium di Roma (dal 24) e all’Elfo di Milano (dal 31), città dove, venerdì 3 novembre, Thorpe terrà un incontro pubblico alle 12.30 presso la sede di piazza Sant’Alessandro dell’Università Statale e in serata, in teatro, al termine dello spettacolo.
Per «Confirmation» si è ispirato al saggio di Jonathan Haidt «Menti tribali» (pubblicato in Italia da Codice nel 2013), basato sul pregiudizio di conferma. Di cosa si tratta?
«Della tendenza che tutti abbiamo a dare priorità a “prove” che supportano un nostro punto di vista consolidato. Questo da un lato è positivo perché permette ad esempio di prendere decisioni rapide sulla base di esperienze precedenti; dall’altro è distruttivo, considerata la nostra tendenza a radicalizzare le opinioni, a polarizzare gli atteggiamenti e le politiche, a ricorrere a supporti mediali (tv, cinema, stampa) pensati per darci la soddisfazione di veder confermato il nostro punto di vista. Questo crea un “effetto polarizzazione” che rende gli individui meno inclini a cambiare idea».
Un esempio?
«Pensiamo alla mentalità “liberale” come inevitabilmente più flessibile di quella “conservatrice” — non necessariamente migliore: solo, il liberale considera la flessibilità importante per la sua identità, mentre il conservatore tende a rifiutare la flessibilità. È difficile con un divario del genere partire dallo stesso punto. I liberali sono pre-disposti ad assorbire altri punti di vista, i conservatori sono pre-disposti a respingerli. E credo che questo conceda ai secondi un leggero vantaggio sui primi, in quanto hanno la tendenza a vedersi come “vincitori” addirittura prima che il confronto inizi. Dall’incontro con Haidt ho ereditato proprio questo: liberare il campo, in Confirmation, da quell’idea del “vincitore”, rafforzando al contempo il mio liberalismo e la difesa dei suoi principi».
Nello spettacolo lei si confronta con un suprematista bianco...
«Glen è un caso estremo. È un attivista di estrema destra, un razzista convinto. Ma lo spettacolo non affronta tanto i nostri opposti punti di vista, quanto il mio essere aperto a come Glen pensa — cosa lui pensa è un altro argomento, non è quello su cui devo essere aperto. A sua volta, lui mi vede come un “estremista liberale”, così da non dover essere aperto alle mie posizioni».
Come si svolge lo spettacolo?
«La parte iniziale è molto interattiva, il personaggio in scena (l’alter ego di Thorpe, ndr) “gioca” con il pubblico mostrandogli il significato del pregiudizio di conferma con test matematici e quiz. Quindi lo accompagna a scoprire come funziona: quasi sempre ognuno di noi cerca conferma rispetto a posizioni personali (ideologiche o religiose) già forti. Da qui, la seconda parte dello spettacolo assume un registro più drammatico: un progressista liberale si mette in viaggio per “stanare” i suoi pregiudizi nel confronto con qualcuno che abbia posizioni diametralmente opposte, con cui aprire un dialogo “dignitoso”».
Una traccia drammaturgica che lei ha sperimentato in prima persona, entrando in contatto con un estremista di destra.
«Sì, ho incontrato Glen prima via email poi via Skype. I nostri carteggi si articolano con il coinvolgimento del pubblico».
Che cosa rappresenta per lei il teatro?
«Lo strano rito che abbiamo ancora, in un mondo con tante altre opzioni, di entrare in una stanza per provare, all’interno di una comunità, a rispondere a una domanda. Di solito una domanda su qualcosa per cui lottiamo come esseri umani o come società. Ancora meglio se si tratta di una domanda che non ha risposta, perché il rito non viene officiato per darcene o per dirci cosa pensare. Forse ne usciremo, però, con più strumenti per trovare delle risposte. Ovviamente dobbiamo anche divertirci: il teatro non è un intervento chirurgico».
Qual è il testo che l’ha avvicinata al teatro, e l’autore che più l’ha influenzata?
«La prima cosa che ricordo è una pantomima vista quando ero bambino. Poi un Mercante di Venezia di cui però non ricordo molto. Quanto all’autore, sicuramente Caryl Churchill per il modo in cui indaga, tra gli altri, temi come abuso di potere, colonialismo, guerra».
C’è un tema ricorrente nei suoi lavori?
«Gli incidenti aerei, i fenomeni psicologici, l’idea che istintivamente cerchiamo dei finali un “vincitore”, quando invece tutto è legato al cambiamento. L’idea che il bene individuale resti possibile in un mondo in cui ci sentiamo impotenti. Il bisogno umano di aiutare».
Che cosa farebbe se i teatri chiudessero?
«Continuerei a fare teatro. Non c’è bisogno di luoghi istituzionali per farlo. In realtà, più che i tagli ai finanziamenti, mi preoccupa, soprattutto dopo la Brexit, che essi siano in qualche modo legati all’idea di promuovere dei “valori britannici”, qualunque cosa essi siano. Questo mi fa davvero paura. Forse è questa la battaglia che dovremo combattere».