Corriere della Sera - La Lettura
E per vincere l’anestesia sociale il regista gioca con il pubblico
Jacopo Gassmann Figlio del grandissimo Vittorio, ha studiato all’estero costruendo un percorso autonomo. Ora porta in scena due pièce dell’autore inglese: «Mette alla prova i nostri preconcetti»
L’ultimogenito del patriarca ha 37 anni. L’eredità artistica di Vittorio è come scissa a metà: se la parte istrionica appartiene ad Alessandro, quella riflessiva rivive in Jacopo Gassmann (dovremo abituarci a chiamarlo così, con due «n», dopo che suo fratello propose in famiglia di tornare al cognome vero, mentre quello d’arte aveva una sola «n»). Jacopo ha scelto di fare il regista di teatro, senza precludersi altre strade, come la recitazione. Ha un filo di barba, la voce piuttosto profonda a contrasto con la sua baby face, l’eloquio alto. Opere scelte raffinate, gli piace la drammaturgia anglo-americana contemporanea «che scava dentro le ferite: se il teatro ha una chance, deve affrontare temi che abbiano peso rispetto al tempo in cui viviamo».
Al Palladium di Roma dal 24 e all’Elfo di Milano dal 31 arriva il suo Progetto Thorpe: due spettacoli da lui tradotti e diretti, Confirmation, e There Has Possibly Been an Incident. A casa di Jacopo trovi foto del padre con tutto il suo carisma. Di lui parla, ma scegliendo le parole, senza dilungarsi. Si capisce che una volta gli pesava. Non è stato facile avere come padre un uomo così monumentale e fragile. Jacopo sa che prima o poi la domanda gliela fanno. Chiamarsi Gassmann: sente il peso e la responsabilità? «Quando avevo vent’anni, poteva essere. Oggi sento il privilegio».
Sembra che lei, al lavoro, faccia un passo alla volta, ponderando molto le scelte.
«Sono agito da dubbi. Ma io sono stato tanti anni all’estero, l’università a New York, il master a Londra. Poi curo una collana di teatro, i cortometraggi, i due documentari su mio padre. La voce a te dovuta è una riflessione sulla morte. Ci ho lavorato un anno, è stato il mio modo di elaborare il lutto».
Parliamo di Chris Thorpe.
«Lui è un mondo. Un drammaturgo, un poeta, un filosofo che si mette dentro le contraddizioni. Uno che rompe gli schemi classici. Confirmation coinvolge il pubblico, ci gioca con test presi dalla psicologia cognitiva, introduce il tema del pregiudizio di conferma, qualcosa di innato; tendiamo a selezionare ciò che conferma un’idea precostituita; un processo mentale. Chris Thorpe è uno studioso del pensiero umano che nella piéce mette in scena se stesso. Ha incontrato lo psicologo americano Jonathan Haidt, il quale sostiene che possono esserci delle menti innatamente di destra e di sinistra, abbiamo recettori morali e ognuno di noi va a cercare una scala di valori nelle cose. Chris è un liberal, aperto, elastico. Ma pensa che il pregiudizio agisca anche in lui. Decide di confrontarsi con qualcuno che la pensi in modo opposto, di estrema destra. Sul web rintraccia Glen, un blogger».
E…
«E parlano di molti temi, l’immigrazione, la crisi finanziaria, in modo sorprendente e spiazzante per Chris. Confessa di avere territori in comune. Glen proverà a convincerlo di cose implausibili, per esempio sull’Olocausto. Ma esce fuori il progressismo aggressivo, il lassismo di chi eredita valori consolidati che rischiano di risultare vetusti. Chris trova i limiti alla sua possibilità di accogliere l’altro, per mantenere solida la nostra identità alcuni pregiudizi bisogna tenerseli stretti».
L’altro spettacolo?
«Tre attori, tre monologhi. Due temi: la scelta etica, e il flusso di coscienza, cioè come i processi mentali agiscano in noi prima di una scelta importante. Chris è uno scrittore che ragiona per metafore, paradossi, associazioni. C’è un testimone oculare a piazza Tienanmen nel 1989 a Pechino, il giorno dell’uomo solo davanti al carroarmato; poi un individuo che assiste alla deposizione di due tiranni, e anni dopo abbandona i suoi sogni utopici giovanili: da adulto ricompie gli errori di chi odiava; infine una donna che viaggia da un continente all’altro per amore e si accorge che qualcosa non va sull’aereo. Frapposti ai tre monologhi, altre due situazioni: il processo all’uomo che in Norvegia uccise 69 ragazzi e il coro che rac- conta chi poteva intervenire per bloccare quella strage. La scelta del male».
Jacopo, lei all’inizio parlava della chance che il teatro ha di intercettare il sentimento del tempo.
«Credo che uno spettacolo quando funziona debba aprire problemi, agire nella memoria dello spettatore. Deve spostare qualcosa. Vanno anche bene spettacoli d’intrattenimento, sono figlio di quest’epoca, ci mancherebbe. Però penso che ci sia un’anestesia generale, mentre i giovani hanno una voglia incredibile di riflettere, di vedere certe cose. A Londra, dove ho studiato, è diverso, perché nelle scuole vivi esperienze concrete che alimentano la fantasia, in Italia invece insegnano cose troppo complesse e ci lasciano memorie faticose».
Suo padre la incoraggiò?
«Sì, sempre. Quando partii per l’università a New York, ci scrivevamo spesso, era un rapporto scandito dalla parola, era il carteggio che si poteva avere con un padre del genere. Non mi ha mai detto: vai a fare l’attore. E sarebbe stato ingenuo impattare frontalmente con cose che lui aveva fatto. Ha rispettato le mie scelte, il mio bisogno legato alla scrittura, alla ricerca. Mi ha formato, un autore che mi ha fatto scoprire? Direi Flaiano».
È cresciuto con l’ultimo Vittorio, la depressione…
«Ma anche la dolcezza. Non ho conosciuto la sua versione degli anni Settanta, il mattatore che alle feste con Paolo Villaggio, dopo un bicchiere di troppo, cadeva da una poltrona rompendo bicchieri preziosi, e raggiungendo la padrona di casa diceva: ripago tutto! A casa faceva le Olimpiadi culturali ma anche quelle sportive; leggeva Dante, nei gironi infernali metteva amici di famiglia e colleghi, ma i nomi resteranno sigillati dentro di me. A casa, dopo scuola, alle elementari, invitavo i miei amichetti. Papà li accoglieva così: chi ha scritto Delitto e castigo? Si abituarono».