Corriere della Sera - La Lettura
Un secolo di ritardo per decorare il sergente che reagì a Caporetto
Il sacrificio del mitragliere umbro Angiolo Zampini: il 30 ottobre 1917, dopo lo sfondamento austro-tedesco, difese da solo il paesino friulano di Farla, fino a quando non venne aggirato e ucciso con un colpo alla nuca. Fu Cesco Tomaselli sul «Corriere»,
Per cominciare, ha riavuto il suo nome: Angiolo, non Angelo. Ne sarebbe compiaciuto. Fra qualche giorno riceverà anche la decorazione che gli spetta da cento anni. Ne sarebbe sorpreso. Il sergente di squadra Angiolo Zampini e la sua mitragliatrice Saint-Étienne non combattevano per la gloria, quel 30 ottobre del 1917, né per passare alla storia. Ma perché non era rimasto nessun altro a difendere i duecento abitanti di Farla, frazione di Majano, in Friuli, dall’avanzata austro-tedesca verso il Tagliamento. Per il sottufficiale della 999ª compagnia mitraglieri Fiat, questo era un motivo sufficiente per piazzare la sua arma dietro uno spigolo della strada principale, da dove poteva controllare l’accesso al paese, e non muoversi di lì. Fino all’ultimo proiettile, fino all’ultimo respiro. Finché ci fosse stato lui, finché la Saint-Étienne fosse stata in grado di sputare fuoco, gli invasori sarebbero rimasti bloccati fuori dall’abitato, pur avendo già superato il ponte sud del torrente Ledra, l’ultimo ostacolo che li separava dalla contrada, ormai sguarnita. A eccezione di quel «collo di bottiglia» presidiato da Zampini per due ore, prima che un fuciliere tedesco riuscisse ad aggirarlo e gli sparasse alla nuca.
Non era il suo paese, Farla. Il sergente non conosceva nessuno degli angosciati contadini che sbirciavano dalle finestre il «giovanotto bruno con gli occhi spiritati e i gradi di sergente», aggrappato sotto la pioggia alla sua ultima compagna, una francese Modello 1907 di 24 chili e 800, più 26 chili e mezzo di treppiede, capace di tenere in scacco l’avanguardia della 12ª divisione slesiana. No, anzi: soltanto di rallentarla. Ma sempre meglio di niente. Zampini era un forestiero in Friuli: le sue origini, la sua famiglia, i suoi affetti erano tutti a Città di Castello, provincia di Perugia, Umbria. E nessuno avrebbe mai potuto rimproverarlo o accusarlo di vigliaccheria se avesse deciso di eseguire l’ordine di ripiegare, se avesse optato per seguire i suoi superiori e i suoi commilitoni in ritirata, se avesse pensato innanzitutto a tornare dalla bambina di cui era diventato padre tre anni prima.
Ma lui sembrava vederla così: indossava l’uniforme, aveva il nemico di fronte, una mitragliatrice fra le mani, ancora qualche centinaio di colpi a disposizione e un compito da eseguire. Resistere. Se lo era dato da solo, con l’intransigenza e l’idealismo dei suoi 23 anni, ma anche con sufficiente consapevolezza da capire che, ai tedeschi, avrebbe potuto impartire al massimo una lezione di coraggio. I reduci di quella battaglia contro il solitario mitragliere se la sono ricordata certamente più a lungo delle gerarchie militari italiane, che avrebbero continuato a ignorare il gesto del sottufficiale in mancanza — per ovvie ragioni — della testimonianza decisiva di un superiore. A rispolverare la vicenda, sedici anni più tardi, fu per la prima volta un giornalista del «Corriere della Sera», Cesco Tomaselli, incuriosito da quanto narrava Chino Ermacora, scrittore friulano, nel racconto Il carroccio di Farla.
Il 7 novembre del 1933, Tomaselli ragguagliava i suoi lettori sulla storia minore, ma sorprendente, dell’«eroe senza medaglia», uno dei tanti morti nella disastrosa settimana di Caporetto: «È un episodio raccontato dai borghesi e passato alla letteratura dei combattenti senza l’intermedia prosa dei rapporti di servizio» scriveva, dopo aver trovato informazioni di prima mano per ricostruire le ultime ore del mitragliere. Lo aveva impressionato il «culto della sua memoria nel paese», che aveva fatto letteralmente carte false per conservare le spoglie del suo paladino, dopo avere informato della morte la famiglia, e aveva apposto una lapide sul muro della casa accanto alla quale era caduto «Angelo Zampini»: le generalità con le quali il sergente cominciava ad acquisire notorietà nazionale. Ma non ancora meriti sufficientemente certificati, agli occhi dei vertici dell’esercito, da fargli assegnare una medaglia.
La cronaca di Tomaselli, per quanto documentata e appassionata, non sarebbe bastata a garantire un riconoscimento al contadino umbro. Almeno non negli 84 anni successivi. Però ha lasciato una traccia importante per gli storici locali che, come Paolo Strazzolini, docente all’Università di Udine e studioso del Novecento friulano, e il ricercatore Claudio Zanier, hanno ripreso le fila dell’indagine e pubblicano ora, per i tipi di Aviani & Aviani, un libro dal titolo Io resto!. In omaggio alla risposta di Angiolo (il nome originale, ritrovato dai due autori, assieme all’atto di nascita e al foglio matricolare, con le note caratteristiche) ai paesani che lo avevano esortato a mettersi in salvo: «Se tutti fuggono, povera Italia. Io resto!». I virgolettati sono ancora quelli annotati da Tomaselli ascoltando il resoconto dei «fittavoli», quando bussò alla porta di Romilda Venier e del marito Fabiano, per farsi riferire come andò la mattina del 30 ottobre 1917: «Era da poco
giorno quando udimmo un vociare di soldati che si ritiravano. Capimmo che i tedeschi stavano per entrare in paese. Poco dopo, però, una mitragliatrice cominciò a sparare dietro la nostra casa, sull’angolo della piazza. Da una finestra che dà sull’orto potemmo vedere che il tiratore era un giovinotto bruno con gli occhi spiritati e i gradi di sergente».
Che ora era?, doveva averle chiesto l’inviato del «Corriere», ma Romilda Venier non sapeva dirlo: poco prima uno «sdrapano», traslitterazione friulana di
Schrapnel, proiettile d’artiglieria che, all’atto dell’esplosione, «produce una raffica di schegge all’intorno» (come precisano gli autori del nuovo libro), aveva mandato in pezzi l’orologio del campanile. Ma attraverso le finestre della casa dei Venier arrivò una voce che attribuirono a un ufficiale italiano: «Sergente, si ritiri, ci circondano!». A cui il mitragliere rispose: «Io non mi ritiro. Di qua non passano. Ho da morire io prima che passino».
Anche se risultò poi essere più probabilmente il parroco, don Giuseppe Driulini, non fu l’unico in quel paio d’ore a consigliargli di pensare alla pelle. Chiusa in una stanza a pianterreno, in mezzo al fuoco incrociato, con il marito e i dodici figli, Romilda Venier ricordava bene, dopo sedici anni, il surreale scambio di battute tra un militare tedesco e l’ultimo superstite della retroguardia: «Renditi, bravo italiano, renditi!». I nemici avrebbero preferito catturarlo che ucciderlo. Ma non conoscevano Zampini: «No, non mi arrendo, non mi arrenderò mai!». Tomaselli sentì di aver trovato «la storia grande e semplice» che cercava nelle pieghe dimenticate della Grande guerra: «Voleva morire. E sia. Era uno scandalo — scrisse nel suo articolo — che un uomo solo tenesse in scacco l’avanguardia di una divisione imperiale. Sembra provato che l’ultima intimazione di resa sia partita da nemici arrampicatisi sullo zoccolo del campanile o appiattiti dietro al cancello fra il campanile e la chiesa; certo di là partì la fucilata obliqua che aperse uno squarcio nel muretto di sostegno, giusto all’altezza di un uomo inginocchiato».
Teresa Peressini, un’altra contadina intervistata a Farla da Tomaselli, ricordava di aver riconosciuto il cadavere, due giorni dopo, a co mbatt i menti co nc lu s i , quando il parroco lo identificò dalla piastrina e i paesani furono autorizzati a seppellirlo: era uno dei dieci soldati che, la sera del 29 ottobre, aveva sfamato nella sua cucina. In cambio «Zampini voleva che accettassi del denaro: “Tanto, diceva, ora andiamo tutti a morire e dei soldi non sappiamo che farcene”. Era un tipo fiero e si capiva che non aveva paura», assicurò al giornalista. Tomaselli era già immerso negli ultimi istanti del personaggio: «Che vale ormai la sua vita? Vale soltanto il danno ch’egli può infliggere al nemico. Perciò continua a sparare, con riprese calcolate economizzando le cartucce, artista del fuoco a ripetizione… non so, francamente, che cosa si possa chiedere di più a un soldato». Il paese non aveva dubbi, invece, su cosa rendergli: omaggi, ospitalità eterna e un monumento. E, per questo, cospirò.
«Le salme dei caduti sul campo di battaglia — spiega Strazzolini — dovevano essere seppellite provvisoriamente nei cimiteri più vicini. In un secondo tempo le famiglie dovevano decidere se recuperare i resti dopo la riesumazione, a loro spese, o lasciarli all’ Ossario, in questo caso quello di Udine. Era la legge. Ma il podestà di Majano studiò uno stratagemma: attribuì alla famiglia del sergente il desiderio di lasciarlo al camposanto locale in attesa di riportarlo più avanti a Città di Castello. Era una bugia, ma funzionò e in seguito i parenti di Zampini, colpiti dall’affetto del paese, accettarono la soluzione come definitiva».
Mancava ancora qualcosa: una medaglia. Ventidue anni di attesa, dal primo ricorso presentato da Strazzolini al presidente della Repubblica, sono arrivati a buon fine: nel centesimo anniversario della morte Angiolo Zampini otterrà la Decorazione d’onore interforze alla memoria che gli è stata conferita dal capo di stato maggiore della Difesa, generale Claudio Graziano, e che sarà consegnata ai nipoti. La cerimonia si svolgerà domenica 29 a Farla di Majano, e a Tomaselli sarebbe certamente piaciuto raccontarla.