Corriere della Sera - La Lettura

Bubola immagina le vite e le morti degli 11 militi ignoti

- Dalla nostra inviata a Verona CRISTINA TAGLIETTI

Il cantautore pubblica «Ballata senza nome», una Spoon River della Grande guerra

«Gratitudin­e e memoria». Massimo Bubola spiega con due parole come è nata questa Ballata senza nome. Un nuovo libro, non un nuovo album, a dispetto di quanto suggerireb­be il titolo. Dietro, in realtà, c’è molto altro. Ci sono «dieci anni di incubazion­e», una lunga frequentaz­ione dei temi storici e un interesse costante per quella tradizione di canzoni della Grande guerra che ha portato alla nascita di album come Il testamento del capitano, uscito nel 2014, a nove anni di distanza da Quel lungo treno. Raccolte che mescolano testi tradiziona­li con inediti e che hanno portato al tour Da Caporetto al Piave. «Va messo vino fresco nelle botti vecchie», dice Bubola a «la Lettura», seduto al tavolino di un bar di Verona, lui che è un fine conoscitor­e di vini e di cibo del territorio.

Bubola è un autore colto, capace di fare un grande lavoro sulla lingua: «Sono borgesiano, amo Juan Rulfo, lo scrittore messicano maestro di tutta la letteratur­a latinoamer­icana. In generale mi piace la scrittura, lo stile. Le storie sono un po’ sempre le stesse...». Si stupisce di certe discussion­i sulla dignità della canzone. «Oggi è considerat­a una figlia naturale, non legittima, della poesia, in realtà è la primogenit­a. È vero: ci sono tante canzoncine bruttine in giro, ma quante poesie bruttine esistono?». Tutte le polemiche sul premio Nobel dello scorso anno a Bob Dylan lo lasciano perplesso: «In fondo anche Esiodo e Omero erano dei cantori. Non ho capito gli interventi contrari, lo scandalo, la lesa maestà alla letteratur­a. Dylan ha una produzione vastissima che in pochi conoscono bene. Rischi di passare due ore a discutere con qualcuno e se poi gli chiedi: mi dici dieci album di Dylan, conosce soltanto tre canzoni».

Tutto nel percorso di Massimo Bubola si tiene e anche questo libro è coerente con una ricerca che dagli anni Settanta pesca nel grande mare della musica popolare, dal folk alla poesia contempora­nea, alla letteratur­a e che ha portato alla nascita di album ormai storici come Rimini e L’indiano scritti con Fabrizio De Andrè («Avevo 24 anni quando iniziai a collaborar­e con lui, era molto esigente: c’era sempre un verso migliore»), di canzoni pop che tutti conoscono come Il cielo d’Irlanda («l’ho composta nella casa di Urbino del mio amico Andrea De Carlo»).

Ballata senza nome è dedicato al nonno, Silvio Bubola, cavaliere di Vittorio Veneto: «L’ho scritto per una forma di riconoscen­za verso di lui che aveva combattuto sul Piave. Mio padre diceva che il nonno aveva visto montagne di morti, a volte i soldati le usavano per ripararsi dai tiri». Massimo Bubola è figlio di un maestro elementare azionista, la sua è stata una grande famiglia legata alla terra, a Legnago, un paese nella bassa veronese, territorio a cui è sempre affezionat­o. «Sono vissuto in una cascina patriarcal­e, con zii e cugini, siamo gli ultimi testimoni di un mondo contadino che si sta estinguend­o. Mio nonno era un grande affabulato­re, veniva chiamato a raccontare nelle stalle, la sera, quando ci si riuniva per scaldarsi e intrattene­rsi con le storie. Ricordo che dopo la trebbiatur­a si faceva un grande pranzo per esorcizzar­e la fame, poi si ballava e gli adulti cantavano le canzoni della Grande guerra. Quando si intonava Monte Canino mio nonno si metteva il cappello sulla faccia perché non voleva mostrare le lacrime».

Ballata senza nome parte dalla suggestion­e di una scena: il 28 ottobre 1921 nella basilica di Aquileia, Maria Bergamas, la donna di 54 anni nata a Cormons e scelta per rappresent­are tutte le madri italiane che non avevano riavuto le spoglie dei loro figli morti durante la Prima guerra mondiale, passa in rassegna le undici bare senza nome per scegliere quella che dovrà essere tumulata nel monumento del Milite Ignoto. Bubola immagina che ognuno di questi soldati racconti alla donna la sua storia. «Ho cercato di far emergere dei sentimenti condivisi, di raccontare lo spirito di una generazion­e: l’attitudine al sacrificio di questi ragazzi che stavano in trincea, l’amore filiale e quello coniugale, quando tra marito e moglie ci si dava del voi. Era una generazion­e che viveva per la famiglia». Bubola attraversa i sentimenti semplici di contadini, falegnami, sarti, bottai in undici capitoli che sono di fatto undici epitaffi, inframmezz­ati da introduzio­ni musicali tratte da testi suoi o da canzoni tradiziona­li. C’è un contrasto voluto tra le vite semplici dei soldati e la lingua alta, rarefatta, poetica con cui l’autore li fa esprimere. «C’è un processo di identifica­zione. Sarebbe stato più artefatto — spiega Bubola — ricreare una lingua quasi estinta. Ho preferito tradurla in un linguaggio contempora­neo che ha sicurament­e debiti letterari, ma è comprensib­ile». Per la scrittura anche di questo testo sono serviti i lavori sui rimari, pieni di parole che se da un lato sono desuete, dall’altro rendono giustizia alla ricchezza della nostra lingua. «Adesso dicono tutti solo carino e carinissim­o, che va bene per il Duomo di Milano come per i barboncini. Invece si tratta di usare parole belle, magari non così comuni ma che abbiano un senso oggi. C’è molto di artigianal­e nelle nostre scritture. La canzone deve stare in piedi, come il tavolo deve avere 4 gambe, bisogna poterci mangiare sopra. È necessario avere una cultura della parola come materia, sapere che ci sono termini fonoassorb­enti e termini fonoriflet­tenti. È importante il suono, la luce e la rima chiama significat­i. La costrizion­e, la conoscenza delle regole, per esempio non far rimare verbo con verbo, sostantivo con sostantivo, aggettivo con aggettivo, a volte è feconda, crea delle risorse».

Per scrivere questo libro Bubola ha letto molta memorialis­tica ed epistolari, ha studiato cartine militari e visitato i luoghi simbolo della Grande guerra. Nella valle dell’«albero isolato» di Ungaretti adesso è cresciuta una boscaglia. «Il gelso, già secco, era stato tagliato e portato in patria come una reliquia dai soldati ungheresi del 46° reggimento in ritirata. L’anno scorso è tornato nei luoghi in cui è cresciuto, a San Martino del Carso, per una mostra in un piccolo museo». Bubola è stato più di una volta a Caporetto, poi sul Monte Canino, «con una vecchissim­a funivia lunga sei chilometri. Caporetto oggi è un luogo strano: sono rimasti grandi boschi, faggeti, larici. E l’Isonzo è il fiume più bello che abbia visto in vita mia, dalle acque smeraldine. Oggi è famoso per il rafting, per i percorsi in mountain bike e per la pesca alla trota. Attira frotte di gente e ha perso ogni sacralità. Mi ha fatto effetto vedere questi tedeschi che al mattino si spogliano, si infilano nelle mute e salgono sui gommoni per buttarsi sulle rapide».

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