Corriere della Sera - La Lettura

Guardate le foto. Uno è un trafficant­e di uomini. Quale?

Un cittadino eritreo è arrestato il 24 maggio 2016 in un bar di Khartoum, Sudan, estradato il 7 giugno e dal giorno dopo detenuto in Italia. L’accusa sostiene che è lui il «re degli scafisti». Ma qualcosa non torna

- Dalla nostra inviata a Palermo ALESSANDRA COPPOLA

«Imputato Mered Medhanie Yehdego detenuto presente», scandisce la cancellier a . Dall ’al t r a parte del l a gabbia di vetro, un ragazzo in maglietta scura sa che a questo punto deve alzarsi, scatta come una molla, ondeggia da un piede all’altro, si risiede. L’udienza prosegue, il giovane si tormenta sulla panca, bacia la croce turchese che ha al collo, si guarda attorno muovendo lo sguardo. È il momento dell’accusa, poi la difesa, i gomiti sulle cosce, si tiene la testa, piange, si asciuga gli occhi con le mani, l’interprete gli porge un fazzoletto di car t a, quindi gl i te nde l ’o re cchio. «Vuole parlare — traduce in italiano, le prime dichiarazi­oni spontanee dall’inizio di questo processo —: senza il mio nome, senza la mia identità mi trovo qui, per me è una cosa strana».

Il presidente della Corte d’Assise chiede all’interprete di uscire dalla recinzione trasparent­e e ripeterlo al microfono: «Mi meraviglio, senza nome, senza cognome, per me è una cosa strana, non è la mia identità».

Non è lui Medhanie Yehdego Mered «il Re», «il Generale» dei trafficant­i di eritrei attraverso la Libia? E chi è allora questo ragazzo stralunato arrestato oltre un anno fa in Sudan, estradato a Roma, il 3 ottobre scorso seduto sul banco degli imputati al Palazzo di Giustizia di Palermo?

La signora Meaza Zerai Weldai sostiene che si tratti di suo figlio, Medhanie Tesfamaria­m Berhe, trent’anni da poco compiuti, diplomato all’istituto tecnico di Asmara, «una buona persona — dice a “la Lettura” — gentile, educato, calmo». Poco ambizioso, tanti piccoli impieghi, l’ultimo in un’azienda lattiero-casearia, dalla fine del 2014 emigrato per sfuggire al feroce servizio militare del regime, attraverso l’Etiopia fino a Khartoum, con l’idea di arrivare in Europa. «Sono sicura che sia lui — insiste — non c’è dubbio. Ma sono anche spaventata: non ha fatto le cose di cui l’accusano. Non è il suo ambiente, non c’entra nulla». La donna ha faticosame­nte viaggiato dall’Eritrea a Palermo per sottoporsi al test del Dna che lo provi: «È il mio ragazzo, non è un criminale». Ha portato l’annuario della scuola superiore, la foto col tocco, la pagella delle medie, l’album di famiglia con le sorelle, il certificat­o di battesimo, tutto quello che ha trovato in casa per poterlo dimostrare.

Fisheye Haile Tesfay ride: «Un trafficant­e?», scuote la testa, come se fosse assurdo, quasi comico. È certo di riconoscer­e nell’arrestato il bambino con cui ha diviso casa ad Asmara: «Vivevamo tutti da una mia zia che era rimasta sola. Poi io sono andato via», è in Italia dal 2003, «e lui era ancora adolescent­e, studiava». Di testimonia­nze come la sua se ne possono raccoglier­e molte, l’hanno fatto tra i primi in Gran Bretagna la «Bbc» e il «Guardian». L’avvocato difensore, Michele Calantropo, ha stilato un lungo elenco di testimoni in grado di identifica­re l’imputato nell’ignaro lattaio di Asmara.

Se avessero ragione, perché allora questo ragazzo deve rispondere di associazio­ne a delinquere volta al favoreggia­mento dell’immigrazio­ne clandestin­a con una lunga serie di aggravanti, rischiando trent’anni di reclusione? «Io mi sono fatto l’idea che l’errore sia stato commesso in Sudan», spiega Calantropo: «Hanno consegnato agli italiani l’uomo sbagliato». Per tentare di capire se qualcosa sia davvero andato storto, allo- ra, bisogna risalire all’inchiesta, al mandato di cattura e, quindi, al momento dell’arresto.

Diversi procedimen­ti, da Roma e dalla Sicilia, hanno rintraccia­to in questi anni una fitta rete di trafficant­i in grado di muovere decine di migliaia di persone dall’Africa Orientale al Nord Europa, attraverso l’Italia, con guadagni milionari. Tra tutti, il pm della Direzione distrettua- L’album fotografic­o attribuito a Medhanie Tesfamaria­m Berhe, eritreo, trent’anni da poco compiuti, detenuto in Italia le antimafia (Dda) di Palermo, Calogero «Geri» Ferrara, è stato particolar­mente attivo e innovativo, forte anche della sua esperienza internazio­nale, due anni alla Corte penale dell’Aja. «A lungo quello del traffico di esseri umani è stato un reato poco considerat­o — spiega il magistrato a “la Lettura” —.È a partire dalla strage del 3 ottobre 2013, 368 morti al largo di Lampedusa, che cominciamo a fare indagini più ampie, non solo sul singolo scafista, ma sull’intera rete criminale». Viene riconosciu­ta l’associazio­ne a delinquere, il fascicolo si apre in Dda come se fosse una caccia ai mafiosi. «Investighi­amo su chi organizza queste traversate — continua il pm —; interroghi­amo i migranti allo sbarco: quando sei a Khartoum e devi arrivare alla costa, come fai? E poi dopo, come ti muovi?».

È così che rintraccia­no utenze telefonich­e — libiche, sudanesi, egiziane — che possono intercetta­re perché agganciano ponti telefonici italiani. La prima operazione Glauco, con l’aiuto del Servizio centrale operativo della polizia e le Squadre mobili di Palermo e Agrigento, riesce a individuar­e i responsabi­li della strage di Lampedusa e si conclude con sei condanne. Questo sforzo iniziale, però, innesca un effetto domino. Nuovi numeri di cellulare, altri boss dei trafficant­i individuat­i in Africa, la rete sotterrane­a dei passaggi di soldi — l’hawala — finalmente chiarita, e soprattutt­o un primo collaborat­ore di giustizia, Nuredin Wehabrebi Atta.

C’è materiale per un Glauco 2 (ce ne sarà poi anche un terzo). Ed è a questo punto che compare Medhanie Yehdego Mered, eritreo con grande capacità di manovra in Maghreb. L’ascolto delle sue comunicazi­oni comprova una quantità impression­ante di passaggi. Nell’estate del 2014, per esempio, da un unico numero di telefono Mered dà istruzioni e chiede informazio­ni su almeno 16 sbarchi che fanno capo a lui, per un totale di 5.500 immigrati in quattro mesi, duemila euro di media a «biglietto». Una potenza. Qualcuno lo chiama «il Generale». «Lui è il Re in Libia — lo definisce il suo cassiere, ora a Rebibbia — è molto rispettato». Qualcosa, però, sembra cambiare a fine agosto del 2014; nel caos delle milizie si crea una situazione rischiosa anche per il Re: gli italiani che lo intercetta­no registrano uno spostament­o in Sudan. Bisogna allora cercarlo a Khartoum, dove c’è maggiore possibilit­à di arrestarlo, quanto meno c’è una polizia locale a cui fare riferiment­o.

La segnalazio­ne arriva dai britannici della neonata National Crime Agency (Nca), che nel luglio 2015 lo individuan­o e mandano un memo agli italiani con un numero di telefono: ecco Mered. Gli inquirenti riescono a intercetta­rlo tre volte, a maggio 2016. «Medhanie, per piacere a i ut a mi » , di ce una vo ce a l te l e fo no. «Quando avrai i soldi, la situazione cambierà», la risposta. Chiamata localizzat­a: viene dal Corner Café, nel quartiere eritreo di Khartoum. Nel pomeriggio del 24 maggio 2016, gli agenti sudanesi circondano il locale e catturano un uomo che sta bevendo il tè chiamandol­o per nome: Medhanie? Come dire: Salvatore? Il ragazzo annuisce e dieci giorni dopo scende in manette dalla scaletta di un aereo italiano a Ciampino.

Conferenza stampa, successo internazio­nale per la cattura e la rapida estradizio­ne di uno dei più ricercati trafficant­i di esseri umani, lo scrive sul suo sito pure la Nca. Ma già alla diffusione della foto allo scalo di Roma cominciano i dubbi. Tam tam di amici e parenti. Messaggi

sulla pagina Facebook del ragazzo. E anche persone che conoscono il trafficant­e Mered iniziano a scambiarsi segnali, più cauti, sui social: non è lui.

L’arrestato, però, è realmente in possesso del cellulare intercetta­to a maggio. Il suo avvocato spiega che gli era stato dato per fare da intermedia­rio tra alcuni amici che si erano messi in viaggio e i parenti di questi che dall’Eritrea dovevano pagare le quote stabilite ai trafficant­i. Non ha passaporto, perché sostiene che l’abbiano preso i sudanesi. Fornisce le password per i suoi social e alimenta la confusione: si rintraccia­no scambi con Lydya Tesfu, la moglie di Mered, rifugiata in Svezia. Ma il mondo della diaspora eritrea è piccolo, lo giustifica ancora il legale, il ragazzo l’aveva contattata sì, ma tentava di corteggiar­la dopo aver visto le sue foto online, in realtà i due non si conoscono. Anzi lei gli risponde chiarament­e per allontanar­lo: «Io ho bisogno solo di mio marito…». La stessa Lydya successiva­mente su Facebook si accorgerà che i lineamenti del ragazzo in manette non corrispond­ono a quelli del suo Medhanie, Mered, dal quale appena nel 2014 ha avuto un bimbo.

Il punto è qui: qual è il volto del trafficant­e? Perché a guardare l’immagine allegata al decreto di fermo, firmato tra gli altri dal pm Ferrara, e inserita pure nelle carte della procura di Roma — un uomo con i ricci tenuti indietro, la maglietta blu e una vistosa croce argentata sul petto —, allora il giovane arrestato non è nemmeno somigliant­e.

La linea dell’accusa è che non esista un ritratto «ufficiale», prima della cattura erano state fatte solo ipotesi, al punto che la foto non sarebbe stata acclusa alla red notice dell’Interpol, la richiesta internazio­nale di individuar­e e arrestare un ricercato. Al tempo stesso, però, è proprio quella con la croce l’immagine che il fratello di Mered, Merhawi, sentito dalla polizia olandese, riconosce. Ed è la stessa che il «cassiere», Seifu Haile, indica dalla sua cella romana agli inquirenti: «È questo Medhanie, lui è un Re in Libia, è molto rispettato, è uno dei pochi, forse l’unico che si può permettere di andare in giro con un crocifisso al collo», in una città violenta e di rigurgiti islamisti come Tripoli. In un’intercetta­zione, prima dell’arresto, ne parlava al telefono con tale Wedi Hareb, che guardava il ritratto online e si meraviglia­va: «Dove l’ha presa quella croce? I libici non gli fanno niente?». E Seifu: «Sì sì è una bella croce grossa, ma che gli devono fare, il lavoro non ha religione...».

Ancora un dubbio: l’età non coincide. In una conversazi­one con l’ex moglie, Semhar, nel 2014, il trafficant­e dice di avere 33 anni: «Devo farne 34». L’arrestato è più giovane. E parla solo tigrino, non è mai stato in Libia, mentre Mered regnava a Tripoli e conosce l’arabo. Il confronto vocale tra l’intercetta­zione del maggio 2016 e tutte quelle precedenti ha dato esiti incerti perché il sistema utilizzato, in mancanza del tigrino, è stato tarato sulla lingua considerat­a più vicina, l’arabo egiziano. Difficile che possa valere come prova definitiva.

Se non bastasse, lo stesso Mered, in uno scambio via Messenger con il giorn al i s t a de l « New Yo r ke r» Be n Ta u b avrebbe ammesso di essere ancora latitante. A maggio 2016, al momento del suo «arresto» a Khartoum, sarebbe stato addirittur­a detenuto per documenti falsi negli Emirati Arabi Uniti (paradiso fiscale dei trafficant­i). Scarcerato, la sua pagina Facebook risulta poi nuovamente aggiornata dall’agosto 2016 con l’immagine di un bar di Dubai. Alcune fonti lo segnalano attualment­e in Uganda.

C’è un’unica voce discordant­e: il collaborat­ore Atta, che ha riconosciu­to l’uomo con la croce, ma gli ha attribuito un nome diverso: Habdega Asghedom. Sarebbe per l’accusa la prova che il modo in L’album fotografic­o attribuito a Medhanie Yehdego Mered, eritreo, 36-37 anni, latitante, segnalato in Uganda cui vengono chiamati non conta molto, perché è una giungla di alias e non c’è da fidarsi dell’anagrafe. Fonti della procura al tempo stesso, però, confermano che non esiste un solo testimone che abbia guardato la foto del ragazzo arrestato e abbia detto: questo è un trafficant­e.

E poi c’è Yonas, che riconosce senza esitazioni Medhanie Yehdego Mered nell’uomo con la maglietta blu e la croce argentata: «È lui che ho pagato per arrivare in Europa». Le sue parole sono raccolte e tradotte per «la Lettura» dall’attivista eritreo-svedese Meron Estefanos. Rifugiato a Stoccolma, 33 anni, l’uomo non rivela il vero nome, perché dice di essere ancora spaventato, ma è disposto ad andare in aula a Palermo per testimonia­re.

A maggio 2011, Yonas si mette in cammino, letteralme­nte, a piedi, dall’Eritrea al Sudan. Sono anni in cui il passaggio libico è chiuso, l’uomo chiede informazio­ni e alcuni connaziona­li gli indicano tre trafficant­i: «Ti possono aiutare ad andare in Israele». Tra questi c’è Mered. «Veniva da un villaggio vicino ad Asmara chiamato Mekerka, non lontano da dove sono cresciuto, mi sono fidato». Yonas negozia per tremila dollari il viaggio fino al confine egiziano-israeliano e sale sul retro di un enorme autoartico­lato che trasporta pecore: «Eravamo nascosti in cento». Come da istruzioni, attraversa­no il Nilo con l’imbarcazio­ne di un sudanese. A questo punto, però, ad attenderli sulla riva opposta trovano i pickup dei beduini. Sta per iniziare un incubo. Il rifugiato e i suoi compagni di viaggio vengono «ceduti» alle bande del Sinai che li incatenano, li torturano e li terrorizza­no. «Ci costringon­o a chiamare le famiglie, vogliono 50 mila dollari per non ucciderci, minacciano di vendere i nostri organi». Eppure Mered e gli altri due trafficant­i avevano garantito un passaggio sicuro: «Li chiamiamo per raccontare quello che è successo, Mered ci dice che se ne occuperà ma non risponderà mai più a quel cellulare».

Le violenze subite sono atroci, stupri, umiliazion­i, privazioni insostenib­ili, Yonas è un sopravviss­uto, a stento. La sua famiglia riesce a raccoglier­e con estrema fatica 26 mila dollari per il riscatto. Ai beduini non bastano. «Dopo dieci mesi di torture il mio corpo cede, rimango incoscient­e per ore, credono che sia morto e mi abbandonan­o nel deserto». In tanta tragedia, un colpo di fortuna: «Un uomo mi soccorre e mi porta in ospedale». Una volta guarito, però, gli egiziani gli imputano l’ingresso illegale nel Paese e lo rimandano indietro. Yonas ottiene di tornare in Etiopia e non in Eritrea (dove rischiereb­be la vita), ma si ritrova comunque alla casella di partenza. Si rimette in marcia per Khartoum, quindi riesce ad arrivare in Libia. La rotta si è riaperta, anche i trafficant­i si sono ricollocat­i.

Tra quelli che hanno traslocato Yonas ritrova Mered: «Fui scioccato quando lo rividi, mi dissero che era uno di quelli che potevano farmi arrivare in Italia, aveva un centro di raccolta insieme a un libico, Ali. Ci diede lavoro come manovali in cambio di cibo e alloggio. Faceva paura a vederlo, come se fosse impazzito. Camminava con una pistola e sparava in aria. Fumava tanto hashish ed era diventato molto più potente perché ora aveva le sue barche. L’ho pagato 1.600 dollari per attraversa­re il Mediterran­eo e arrivare in Sicilia. Era dicembre 2013».

L’attivista svedese gli mostra una foto del ragazzo arrestato come Mered: «Non l’ho mai visto», dice Yonas.

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