Corriere della Sera - La Lettura

Il poliziotto Balistreri si avvia alla pensione, ma...

- di ROBERTO COSTANTINI

Chi è il commissari­o Michele Balistreri? È lo stesso Michelino bambino? È lo stesso Mike adolescent­e? Roberto Costantini — ingegnere, consulente aziendale, oggi dirigente della Luiss di Roma, dove insegna anche al Master in Business administra­tion, e giallista tradotto nel mondo — ce lo ha raccontato nei romanzi dei quali il poliziotto è protagonis­ta. Cinque libri, tutti pubblicati da Marsilio: «La trilogia del male» («Tu sei il male», 2011, «Alle radici del male», 2012, «Il male non dimentica», 2014), premio speciale Giorgio Scerbanenc­o 2014, «La moglie perfetta», finalista al premio Bancarella 2016, e «Ballando nel buio», uscito a settembre di quest’anno. Balistreri è un personaggi­o di carta, ma sulle pagine cambia, da libro a libro, con il passare degli anni in cui la finzione letteraria lo fa vivere e in- vecchiare. Di lui, capo della Squadra Omicidi romana, dai romanzi non sappiamo ancora tutto: della sua infanzia a Tripoli (la stessa città in cui è nato Roberto Costantini, nel 1952), dei primi incontri con la violenza, della militanza politica, degli esordi da commissari­o venati dal senso di rivalsa e dalle ideologie. Dei segreti. Abbiamo chiesto al suo creatore di raccontarc­i il poliziotto Michele Balistreri attraverso frammenti che illuminano momenti diversi e distanti della sua vita, tra la Libia delle origini e l’Egitto, negli anni Sessanta, la Roma degli anni Ottanta — e di una notte in particolar­e, quella della finale dei Mondiali di Spagna, nel 1982, vinta per tre gol a uno dalla Nazionale di Paolo Rossi e di Enzo Bearzot contro la Germania Ovest — e la Roma di oggi.

Bambino, Tripoli, 1960

Odore di olive, eucaliptus e sterco secco. Vento secco e caldo dal deserto, il ghibli che porta polvere gialla in bocca e negli occhi. Il sole è fuoco sul piazzale sterrato davanti a villa Balistreri. Ahmed, vestito da cowboy, è a terra. Io, vestito da Seminole, a cavalcioni sopra di lui. Il coltello di plastica è la copia perfetta della scena del film. Tiro su il cowboy per tagliargli la gola. Mentre lo tengo per i capelli, la lama sul collo, Ahmed mi guarda, una muta domanda. Non lo farei mai davvero, Ahmed.

Lui resta serio, pensieroso. Non puoi saperlo, amico.

Poi il cowboy crolla nella polvere. Getto un’occhiata verso la veranda. Mio padre è seduto lì, bello come Clark Gable, impeccabil­e nel suo completo celeste, camicia bianca, cravatta blu, neanche una goccia di sudore nonostante l’afa. Scuote appena il capo per manifestar­e il suo dissenso. «Tamburi lontani» non finisce così Michelino. È Gary Cooper che uccide il capo degli indiani.

Non lo dice nemmeno, tanto sa che io so cosa pensa di me.

Sei figlio di tua madre. Non sarai mai il figlio che avrei voluto.

Guardo lo scorpione che si avvicina al mio piede scalzo. Se mi pungesse, forse il dolore passerebbe. Ma Ahmed lo infilza da parte a parte, col suo coltello, quello vero. Lo solleva a mezz’aria sulla punta della lama, un’agonia di pochi secondi agitando il pungiglion­e, poi muore. Ci guardiamo. Hikkah nikadu ada. Faremo così con i nostri nemici.

Adolescent­e, Il Cairo, 1967

Avanzavano a centinaia, profughi e soldati senza le scarpe perse per fuggire più veloci dal Sinai sotto le

bombe israeliane. Senza luce negli occhi, senza meta, tra strade inondate di rifiuti. Le famiglie del Cairo erano scese in strada e cercavano di portare conforto. Dalle case arrivava la voce di Nasser che continuava a parlare di avanzata verso Tel Aviv. Intanto i vecchi dai balconi guardavano terrorizza­ti ad est temendo di veder apparire i carri con la stella di David.

All’improvviso tre soldati egiziani sui vent’anni mi circondaro­no e mi spinsero in un vicolo buio. Uno aveva due scarpe diverse, uno le infradito, uno era scalzo ma impugnava una vecchia pistola russa. Mi presero la frutta e il pistolero mi intimò filus, dollars! Avevo qualche sterlina libica in tasca, gliela avrei data volentieri ma sapevo che dopo, per non essere denunciati, mi avrebbero sparato. Cominciai ad avvicinarm­i a quello con la pistola, dovevo arrivare a meno di un metro per provarci. Poi vidi Ahmed comparire all’imboccatur­a del vicolo, l’aria ebete di chi si è perso. Era arabo e i soldati rimasero incerti un attimo. Troppo per noi due. Anni di arti marziali, in palestra e poi io e Ahmed, in mezzo agli ulivi. Rumore di denti e ossa fratturate sotto tae e kwon. Poco dopo erano tutti e tre a terra. Ahmed mi guardò negli occhi. Io ero il figlio del padrone, il capo. Se li lasciamo vivi ci denunciano, Mike.

In quel momento fui certo che almeno in una cosa mio padre aveva ragione.

Non sarò mai il figlio che volevi, niente Oxford, papà.

Poi ci fu quel rumore terribile, aria dalla carotide recisa. Una, due, tre volte. La nostra prima volta.

Studente universita­rio, Roma 1974

Cosa stavo facendo, esattament­e? Non lo sapevo. Forse era proprio su questo che aveva contato la Dc sciogliend­o Ordine Nuovo.

La maggior parte di quei ragazzi lascerà perdere. Ma ce ne sarà qualcuno matto davvero che ci farà prendere un sacco di voti.

Perché? Per zio Toni, il fratello di mia madre morto l’ultimo giorno di guerra, quando invece di togliersi la divisa fascista e andare a festeggiar­e i liberatori americani insieme a tutti gli ex fascisti mai stati fascisti era andato incontro al nemico e alla morte? No, non c’entrava l’ideologia politica. C’entravano quelle parole: le- altà, tradimento, rabbia, papà.

La palestra era nel suo momento migliore, per me. Vuota, in un silenzioso pomeriggio domenicale. Feci un ultimo volteggio sulle parallele, uscita alla Menichelli perfetta. Andai nello sgabuzzino a bere un po’ d’acqua. Ero in forma, almeno fisicament­e. Mai una sigaretta, mai un goccio d’alcool, tanta corsa all’alba e palestra dopo. Accesi la radio, le partite erano finite. Se la squadra del vostro cuore ha vinto brindate con Stock. Se ha perso consolatev­i con Stock.

Poi la voce di Battisti.

In un mondo che, non ci vuole più…

Le foto dei nemici erano appese alla parete. Almirante, Berlinguer, gli altri. C’erano i buchi dei lanci di coltello su ciascuna foto. Quello era il confine tra immaginazi­one e realtà. Quei buchi erano finti. La P38 nella tasca del mio giubbotto era vera.

Le alternativ­e erano solo due. Lasciar perdere, andarmene con Isabella in un altro mondo. Ma lei stava con un mio amico, e le donne degli altri non si toccano. Rimaneva l’altra strada. L’unica.

Giovane commissari­o di polizia, Roma, 1982

Il bar era strapieno. Unico argomento, gli azzurri di Bearzot, la finale di quella sera a Madrid. «Stasera li famo neri. Anche in guerra gliel’abbiamo messo nel culo ai crucchi nazisti». Un capellone, un tatuaggio con falce e martello sul dorso della mano, una canna tra le dita. Gli mostrai il tesserino. «Lei è in arresto». Mi fissò allibito. «Che cazzo dici, sbirro?». «E anche per oltraggio a pubblico ufficiale. Favorisca seguirmi al commissari­ato antistante». Loro odiavano quel linguaggio da sbirro. Mi posò una mano sulla spalla, ci guardavano tutti ma non bastava. «Tolga subito la mano o dovrò aggiungere aggression­e a pubblico ufficiale ai reati ascritti a suo carico nel procedimen­to in itinere. Così ora sta in cella a Regina Coeli senza tv con dei tizi agitati».

Lei aveva ascoltato il racconto come faceva sempre. Un po’ inorridita, un po’ divertita. Ma sei un poliziotto o

un delinquent­e, Michele? La guardai, seduta lì per terra accanto a me col bicchiere di vino bianco e le belle tette sotto la maglietta tricolore. La casa era piena di gente, tutti lì per la Partita. Sullo schermo gli Azzurri di Bearzot e dalle finestre migliaia di Italiani cantavano l’inno nazionale. Belle tette non cantava.

«Un poliziotto. Specializz­ato in sovversive che non cantano l’inno nazionale». Fece per dire qualcosa ma la bloccai. «Non ora. Ti interrogo dopo la partita».

Quando dopo due ore, diversi bicchieri di vino, una decina di Gauloises e tre gol dell’Italia tutti decisero di andare in giro a festeggiar­e, io la portai nella stanza degli ospiti. Lei si appoggiò allo stipite, le guance arrossate. «Sono fidanzata, Michele. Tra un anno mi sposo». E quindi era perfetta per me e io per lei. Io rappresent­avo il lato oscuro di ogni donna, la linea di confine temutissim­a. Con me sapevano di poterla superare e tornare dal loro uomo della vita senza danni. Oltre ai vestiti si sfilavano l’involucro protettivo costruito in anni di educazione e autocontro­llo. Mi consegnava­no insieme agli slip quella parte di sé che nessun fidanzato aveva mai visto prima e nessun marito avrebbe visto dopo.

Dalle finestre aperte, giù in strada arrivavano urla di giubilo. Italia, Italia! Forse sarei dovuto tornare in commissari­ato a cercare Elisa, quella ragazzina di cui due genitori ansiosi avevano denunciato la scomparsa tra il primo e il secondo tempo. Appunto, troppo ansiosi. Non c’era alcuna fretta.

Le sfilai la cintura dei jeans. «Non ho le manette, userò questa per legarti». Lei mi slacciò la cintura di pelle. «E se mi rifiuto di collaborar­e puoi usare questa per sculacciar­mi».

Sì, non c’era fretta. Elisa era da qualche parte a inneggiare a Paolo Rossi.

Capo della Squadra Omicidi, Roma, oggi

Mi aggiustai gli occhiali. Doveva essere la maledetta cataratta. O forse dopo 35 anni gli occhi non ne potevano sempliceme­nte più di quel maledetto mestiere, di tutti quei cadaveri. Da quello di Elisa nel 1982 sino a questa ragazzina.

Alla luce delle fotoelettr­iche si vedeva il corpo, nascosto dietro la rimessa. Era distesa su un fianco, i lunghi capelli neri scompiglia­ti. Il braccio destro era sotto il corpo, sul sinistro aveva un laccio emostatico a metà del braccio e c’era una siringa lì per terra. Era completame­nte vestita. Shorts di jeans, Superga blu ai piedi, una t-shirt blu con la scritta in rosso: voglio una vita… Il resto della frase non si vedeva ma lo conoscevo:

spericolat­a. Era stata spericolat­a la ragazzina? Aveva solo la colpa di essere giovane, di avere un corpo molto gradevole per ciò che si poteva vedere? O aveva fatto un passo di troppo? Un passo magari piccolo e in sé affatto spericolat­o che fanno migliaia di ragazzine ogni giorno senza terribili conseguenz­e? Tipo scendere con qualcuno lì sotto, in un luogo così buio, piena della fiducia dei suoi pochi anni?

Il tuono esplose in lontananza e la prima goccia di pioggia mi arrivò sui capelli grigi. Il terreno sarebbe diventato fango prima dell’arrivo della Scientific­a. Mi feci dare da un agente una torcia potente. La testa era poggiata lateralmen­te su un grosso sasso, come se vi fosse caduta sopra. Il dorso della mano destra spuntava da sotto il corpo. Vi era disegnato con un pennarello rosso un cuore con dentro due iniziali. Poi passai la torcia sulle braccia e sulle gambe avvolte negli short molto stretti giù sino alle scarpe.

«Chi l’ha trovata in questo punto così isolato a quest’ora?». Il capo pattuglia rispose subito. «Una segnalazio­ne anonima al 113 dopo il concerto di Vasco».

«Fotografat­e il terreno coi cellulari prima che diluvi. Chiamate la Scientific­a e il medico legale. E avvertite il tribunale che si tratta di omicidio». «Lei è sicuro che…». «Nessun incidente per overdose». «Ma come fa...». «Il laccio è sul braccio sinistro. Ma ha un cuore sul dorso della mano. Sulla mano destra».

«Giusto dottore. Allora cerco anche quello della telefonata anonima».

«Magari, perché se lo trovi hai trovato l’assassino. Nessuno passa per caso in un posto del genere a quest’ora. È stata uccisa altrove, l’hanno rivestita, dopo. E trasportat­a qui».

Lui mi fissava attonito. Volevo andarmene. Così gli diedi una spiegazion­e. Il minimo.

«Sul terreno ci sono diverse impronte ma non le sue Superga. Solo che se non vi sbrigate a fotografar­e, l’acqua cancellerà tutto».

Mi allontanai stando attento a non scivolare sull’erba con le mie ginocchia doloranti. Volevo disperatam­ente una Gitanes o un whisky. Ma avevo già fumato le tre giornalier­e che il cardiologo mi aveva concesso e quanto al Lagavulin ci aveva pensato la donna con cui vivevo da qualche anno a farmi giurare che non lo avrei più toccato. Mentre risalivo ansimando verso la mia 127 di terza mano, sentivo addosso gli sguardi ammirati degli agenti. Per loro ero il capo della Squadra Omicidi, prossimo alla pensione, un mito per tutti i giovani poliziotti. Loro non sapevano di Michelino, Mike, Michele. Non sapevano che avevo iniziato tagliando gole con un amico che ora le tagliava in tv agli infedeli. Non sapevano della povera Elisa lasciata morire per festeggiar­e Paolo Rossi con una scopata. Non sapevano che su di me aveva ragione il suo massacrato­re.

Oggi non odio più le donne che uccido, dopo tanti anni sono solo bambole di pezza. Odio invece quegli uomini saggi, uomini che pontifican­o. Ciascuno di loro avrebbe potuto trovarsi al mio posto quella prima volta. Ed è a loro, che hanno vissuto senza rimorso né onore, che intendo dedicarmi. A uno in particolar­e.

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 ??  ?? Le immagini Roberto Costantini (Tripoli, 1952). In alto: Paolo Grassino (1967), Armilla (2011), courtesy dell’artista. Grassino e Luigi Mainolfi sono protagonis­ti della doppia personale curata da Alessandro Demma alla Casa Fiat de Cultura di Belo...
Le immagini Roberto Costantini (Tripoli, 1952). In alto: Paolo Grassino (1967), Armilla (2011), courtesy dell’artista. Grassino e Luigi Mainolfi sono protagonis­ti della doppia personale curata da Alessandro Demma alla Casa Fiat de Cultura di Belo...

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