Corriere della Sera - La Lettura

Morandi La vita (ri)comincia a 50 anni

- da Bologna FRANCESCO PICCOLO

Quando Gianni Morandi mi ha riaccompag­nato alla stazione di Bologna con la sua auto, facendomi ascoltare le canzoni che ha appena inciso, e cantando sopra la sua voce registrata, mi sono reso conto che stavo in una macchina con Gianni Morandi che cantava. E oggi posso dire che ero contento, anche perché ho conosciuto una persona che mi piace molto, ho mangiato i tortellini con sua moglie Anna e suo figlio Pietro, all’aperto perché era un giorno di sole nella sua casa nella campagna bolognese, con distese di prati e boschi intorno. Ma il me bambino che il sabato sera si metteva in pigiama sul divano con la sua famiglia, dopo bagno caldo e borotalco, in attesa che cominciass­e Canzonissi­ma, il me bambino che pensava che Gianni Morandi fosse Dio mentre cantava «ma chi se ne importa se adesso il mio cuore si spezza», quello era davvero impression­ato. E ci chiedevamo, io e io bambino: ma com’è possibile che sono qui accanto a Gianni Morandi che canta in macchina?

Gliel’ho detto che era il mio idolo, e mi ha chiesto quanti anni avessi, e poi: «I miei veri fan hanno intorno ai sessant’anni, sono loro che hanno sentito il mio primo disco. Poi negli anni Settanta, quando tu eri un bambino, è cambiata l’aria e io sono sparito per dieci anni, improvvisa­mente non mi volevano più».

Sono sempre stato curioso di quei dieci anni, ho sempre pensato che bisognereb­be scrivere un romanzo sui dieci anni in cui Gianni Morandi non è stato più Gianni Morandi. Ma non pensavo avesse voglia di parlarne. E invece è partito proprio da lì.

Quando pensi a quegli anni, come li pensi?

«Mio padre fino a quel momento, per ogni disco di successo che facevo, mi diceva: vabbè questo è l’ultimo. E io: guarda che ne faccio un altro, e lui: vabbè ma tanto poi finisce. Questo concetto che abbiamo noi montanari che sta sempre per arrivare l’inverno…».

Però funziona, ti ha difeso.

«Mi aveva preparato. Io ero un simbolo degli anni Sessanta, con le copertine dei rotocalchi e la gente che urlava per strada quando uscivo. All’improvviso arrivò questa botta e io tenni duro, nel senso che quattro soldi da parte ce li avevo, mio padre mi aveva detto: tieniti sempre da parte dei soldi per le tasse, quelli glieli devi dare».

Però è durato un sacco di tempo.

«Nel ’70-’71 sentivo che l’aria stava cambiando, erano gli anni dell’eskimo, ricordo che andavo a vedere uno spettacolo di Gaber o andavo al Trianon a Roma e mi guardavano per dirmi: ma tu che cazzo ci fai qui, vai via».

Non eri più Gianni Morandi.

«Andavo in autobus e nessuno nemmeno mi riconoscev­a più. In quel periodo mio padre è morto. Aveva 49 anni, era giovane. Io dovevo cantare a Caracas, erano già anni in cui cominciavo a fare meno, però dovevo tornare in Sicilia per una festa di paese. Lui venne in America con me, era la prima volta che prendeva l’aereo. Aragozzini, l’impresario che ci aveva portato lì, gli disse: “Senti Renato, io vado a New York, perché non vieni con me invece di tornare con Gianni?”. E lui: “Dai, vengo”. Io torno in Italia e a lui lì viene un infarto e muore. Poi divorziai dalla mia prima moglie, rimasi con due figli da crescere, e insieme arrivò la crisi. Perché le cose arrivano tutte insieme. Calcola che avevo 26 o 27 anni e avevo già fatto tutto, mi sentivo vecchio. Quando suonammo con i Led Zeppelin a Milano, in quella serata disastrosa, in quel contesto io mi sentivo uno di cent’anni, in mezzo a tutti quei ragazzi che erano a torso nudo, e mi vedevano un rottame».

Il nodo vero su Gianni Morandi e su di me (in quanto cittadino italiano del suo tempo) è il seguente: le tappe della sua vita, a mano a mano che raccontava, le conoscevo tutte. E non solo io, credo. Se non tutti, quasi tutti le conosciamo. Perché io, senza essere un biografo o uno studioso di Gianni Morandi, so che la prima moglie è Laura Efrikian, che ha vissuto con i figli, sapevo del periodo buio e del fatto che si è iscritto al Conservato­rio, della rinascita e di ogni passaggio della sua carriera, dell’incontro con Anna? Perché so tutto? Perché, credo, tutta la sua vita ha accompagna­to la mia attraverso il racconto dei miei genitori, i rotocalchi, la tv, e poiché per me da bambino era Dio, ogni volta ascoltavo avido ogni notizia. Forse dovrei sempliceme­nte, adesso, scrivere quel romanzo su Gianni Morandi. Di sicuro comincerei da quella notte al Vigorelli, 5 luglio 1971. Ezio Radaelli aveva messo insieme il cast del Cantagiro, con l’idea di avere come ospite un gruppo straniero di quelli che cominciava­no a essere importanti per le nuove generazion­i: i Led Zeppelin. Però nessuno si rese conto che erano quattro giorni che arrivava gente da tutta Italia perché c’erano i Led Zeppelin. E a un certo punto viene annunciato sul palco Gianni Morandi, per primo… «E sento un boato che non ho mai più sentito. Al mio nome un boato gigantesco ed Ezio Radaelli dice: hai visto? E tu avevi paura! In realtà non aveva capito niente: era un boato al rovescio, incazzato. Voleva dire: Gianni Morandi no! Entro terrorizza­to, cominciano ad arrivarmi pomodori, lattine, ragazzi in piedi che mi fanno gesti, io cerco di sorridere e comincio con

C’era un ragazzo perché penso che è giusta, ma non gliene fregava niente, ce l’avevano con me. Ogni tanto ci ripenso a quella sera, alla percezione che qualcosa stesse finendo, non era ancora finita però è stato il momento decisivo. Anche le canzoni, da quel momento in

Sta per uscire il suo quarantesi­mo album di inediti, a quasi 73 anni. «Ma c’è stato un periodo in cui la gente non mi riconoscev­a più, ero fuori tempo Ho tenuto duro» Erano gli Anni 70. «Cambiava l’aria: l’eskimo era ormai di moda. Andavo a vedere Gaber e mi cacciavano. In quel periodo mio padre è morto». Poi mutò di nuovo tutto

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