Corriere della Sera - La Lettura
E l’oro della Spagna non luccicò più
Caraibi, Messico, Perù, Filippine e il cuore dell’Europa, diviso tra domini tedeschi e mondo iberico: in pieno XVI secolo le bandiere spagnole sventolavano ormai su tutto questo. Non plus ultra aveva assunto Carlo V come motto, alludendo con questo all’illimitata espansione dei suoi possedimenti e alla vertigine di quella grande stagione di esplorazioni. E il suo fu davvero un impero, nel senso più profondo e vasto del termine. Una storia dinastica e un’ideologia politica che lo collegavano direttamente alle antiche radici romane; una geografia che gli faceva abbracciare letteralmente il mondo intero. Ma a suo modo un impero effimero. Troppo costosi i lussi di corte e il controllo delle periferie; troppo competitivi i nuovi imperi commerciali portoghese, olandese e francese; troppo logoranti le guerre che ne seguirono.
Così, alla morte di Filippo II, nel 1598, le entrate dei possedimenti castigliani coprivano appena i costi dello Stato e dei suoi eserciti. E già attorno al 1640 il potere militare spagnolo era ormai fortemente compromesso; consumato all’esterno dai conflitti contro la Francia e l’Olanda e all’interno da numerose ribellioni: quella portoghese che avrebbe condotto alla se- parazione delle due monarchie e quella catalana che, per quanto repressa, avrebbe continuato invece a covare a lungo sotto la cenere.
Eppure fu un tramonto dorato: fu quello infatti il tempo del Siglo de Oro; il secolo della pittura di Velázquez e Murillo e della letteratura di Cervantes e Quevedo. Un’arte che nel suo splendore raccontò anche di una realtà ormai vertiginosa e inafferrabile; proprio come la natura stessa di quell’impero immenso. Ma lo splendore nascondeva a stento il baratro che separava i — pochissimi — ricchi dall’immensa moltitudine dei poveri. Quello che già nel secolo precedente aveva raccontato il romanzo anonimo Lazarillo de Tormes (1554), modello di una tradizione letteraria destinata a grande fortuna: rappresentazione di un mondo di hidalgos squattrinati, che cercano di raccogliere furtivamente le briciole della tavola di corte, e di picari spinti ossessivamente dalla fame nelle loro peripezie.
Alla fine del Siglo de Oro la paralisi si fece tangibile. Intanto, nel 1700 si spegneva l’ultimo Asburgo di Spagna e vennero gli anni dei Borbone, con buona soddisfazione di Parigi. L’economia al collasso, l’amministrazione in un crescente disordine e nuovi ideali nazionalisti che ger- mogliavano ovunque, anche nelle colonie sempre più lontane. L’Ottocento si aprì nel peggiore dei modi: la disfatta francospagnola di Trafalgar contro l’Inghilterra (1805) e le imposizioni di Napoleone. Il 2 maggio 1808 Madrid insorse contro i francesi e subì una violenta repressione. Francisco Goya avrebbe raccontato quelle ore drammatiche in una delle sue opere più famose: il cielo nero e la città cupa che si stagliano sullo sfondo e i volti drammatici dei condannati a morte illuminati dal chiarore livido di una lanterna. Si apriva un lungo periodo di conflitti tra anime della Spagna inconciliabili.
L’impero era ormai perduto: negli anni Venti, sulla spinta dello stesso fermento nazionalista, Messico e Perù conquistavano l’indipendenza. Altri sarebbero seguiti presto. Quello che rimase durò pochi decenni ancora: nel 1898 giunsero la guerra contro gli Stati Uniti e la perdita degli ultimi resti delle colonie americane. Mai come in quel momento la Spagna percepì il senso della fine: una crisi di coscienza di tale gravità che sarebbe passata alla storia come il Desastre, disastro per antonomasia, senza aggettivi. Si chiudeva forse solo allora la storia secolare della fine di un impero.