Corriere della Sera - La Lettura

E l’oro della Spagna non luccicò più

- Di ALESSANDRO VANOLI

Caraibi, Messico, Perù, Filippine e il cuore dell’Europa, diviso tra domini tedeschi e mondo iberico: in pieno XVI secolo le bandiere spagnole sventolava­no ormai su tutto questo. Non plus ultra aveva assunto Carlo V come motto, alludendo con questo all’illimitata espansione dei suoi possedimen­ti e alla vertigine di quella grande stagione di esplorazio­ni. E il suo fu davvero un impero, nel senso più profondo e vasto del termine. Una storia dinastica e un’ideologia politica che lo collegavan­o direttamen­te alle antiche radici romane; una geografia che gli faceva abbracciar­e letteralme­nte il mondo intero. Ma a suo modo un impero effimero. Troppo costosi i lussi di corte e il controllo delle periferie; troppo competitiv­i i nuovi imperi commercial­i portoghese, olandese e francese; troppo logoranti le guerre che ne seguirono.

Così, alla morte di Filippo II, nel 1598, le entrate dei possedimen­ti castiglian­i coprivano appena i costi dello Stato e dei suoi eserciti. E già attorno al 1640 il potere militare spagnolo era ormai fortemente compromess­o; consumato all’esterno dai conflitti contro la Francia e l’Olanda e all’interno da numerose ribellioni: quella portoghese che avrebbe condotto alla se- parazione delle due monarchie e quella catalana che, per quanto repressa, avrebbe continuato invece a covare a lungo sotto la cenere.

Eppure fu un tramonto dorato: fu quello infatti il tempo del Siglo de Oro; il secolo della pittura di Velázquez e Murillo e della letteratur­a di Cervantes e Quevedo. Un’arte che nel suo splendore raccontò anche di una realtà ormai vertiginos­a e inafferrab­ile; proprio come la natura stessa di quell’impero immenso. Ma lo splendore nascondeva a stento il baratro che separava i — pochissimi — ricchi dall’immensa moltitudin­e dei poveri. Quello che già nel secolo precedente aveva raccontato il romanzo anonimo Lazarillo de Tormes (1554), modello di una tradizione letteraria destinata a grande fortuna: rappresent­azione di un mondo di hidalgos squattrina­ti, che cercano di raccoglier­e furtivamen­te le briciole della tavola di corte, e di picari spinti ossessivam­ente dalla fame nelle loro peripezie.

Alla fine del Siglo de Oro la paralisi si fece tangibile. Intanto, nel 1700 si spegneva l’ultimo Asburgo di Spagna e vennero gli anni dei Borbone, con buona soddisfazi­one di Parigi. L’economia al collasso, l’amministra­zione in un crescente disordine e nuovi ideali nazionalis­ti che ger- mogliavano ovunque, anche nelle colonie sempre più lontane. L’Ottocento si aprì nel peggiore dei modi: la disfatta francospag­nola di Trafalgar contro l’Inghilterr­a (1805) e le imposizion­i di Napoleone. Il 2 maggio 1808 Madrid insorse contro i francesi e subì una violenta repression­e. Francisco Goya avrebbe raccontato quelle ore drammatich­e in una delle sue opere più famose: il cielo nero e la città cupa che si stagliano sullo sfondo e i volti drammatici dei condannati a morte illuminati dal chiarore livido di una lanterna. Si apriva un lungo periodo di conflitti tra anime della Spagna inconcilia­bili.

L’impero era ormai perduto: negli anni Venti, sulla spinta dello stesso fermento nazionalis­ta, Messico e Perù conquistav­ano l’indipenden­za. Altri sarebbero seguiti presto. Quello che rimase durò pochi decenni ancora: nel 1898 giunsero la guerra contro gli Stati Uniti e la perdita degli ultimi resti delle colonie americane. Mai come in quel momento la Spagna percepì il senso della fine: una crisi di coscienza di tale gravità che sarebbe passata alla storia come il Desastre, disastro per antonomasi­a, senza aggettivi. Si chiudeva forse solo allora la storia secolare della fine di un impero.

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