Corriere della Sera - La Lettura
I cerchi della storia
L’interpretazione cristiana del tempo è lineare: passato, presente, futuro; e alla fine si scopre che cosa significa l’esistenza. Ma Karl Löwith raccomanda di tornare alla saggezza degli antichi: il destino non è una retta ma forse una circonferenza
Scriveva Benedetto Croce che non possiamo non dirci cristiani: è un’affermazione così abusata da risultare noiosa, un luogo comune che si ripete distrattamente. Come tutti i luoghi comuni, anche questo però nasconde una verità. Basta riflettere sulla nostre idee di tempo e di storia per rendersene conto. Viviamo immersi nel tempo, e niente è più angosciante, per gli uomini, della prospettiva di una vita senza senso. Che cosa è il tempo? Quale è il senso della storia umana, di tutti gli uomini insieme e di ciascuno individualmente preso, del cammino millenario che stiamo compiendo? Ci deve essere un senso: è una convinzione diffusa, che agisce sottotraccia, inestirpabile. Ci deve essere un senso nelle nostre azioni e questo senso alla fine si chiarirà, quando il brutto anatroccolo diventerà un cigno pronto a volare. È lo schema cristiano. Il tempo è una linea retta — passato presente futuro — che procede verso una meta — la fine dei tempi, il paradiso (e l’inferno) — che darà valore a tutto il percorso rivelando il senso della nostra storia: che la nostra storia aveva un senso. Non importa se il paradiso non è più in un ipotetico aldilà; potrebbe anche essere la città comunista di Marx o il mondo meraviglioso che promettono i tecnici di Apple e Tesla. La struttura, però, è la stessa, come aveva mostrato Karl Löwith in Senso e finalità della storia, il libro che ha indagato in modo magistrale la persistenza di questi schemi teologici nel nostro mondo secolarizzato.
Un altro saggio più agile, Sul senso della storia, appena ripubblicato da Mimesis, permette di verificare che questo non è l’unico modo di affrontare il problema. In effetti, forse perché abituati ai loro dèi capricciosi e scostanti, gli antichi avrebbero nutrito qualche perplessità sulle nostre convinzioni, sulla pretesa che tutti i dettagli prima o poi si ricomporranno in un unico disegno, che dà senso e giustifica tutto. È una posizione più disincantata, la loro, che leva l’uomo dal centro della scena, rimettendo tutto nella giusta prospettiva: ci mette di fronte a ciò che accade — la guerra e la pace, l’odio e l’amore, lo spettacolo vario dell’umanità — rinunciando a cercare sensi ulteriori e più profondi, che non si vedono e non è detto che ci siano. È una «visione di cose visibili — scrive Löwith — non un atto di speranza e di fede nelle cose invisibili». Non c’è la Storia, per gli antichi, ma tante storie al plurale: storie di uomini e donne che lavorano, combattono, amano, viaggiano, lottando contro le difficoltà, inseguendo sogni e desideri. E come nel palazzo di Atlante dell’Orlando furioso il risultato è un intreccio continuo di vite che s’incontrano, scontrano, separano o avvicinano, in un movimento vorticoso, mai lineare, alla fine indecifrabile.
Sono vicende di cui è possibile comprendere singolarmente il significato ( Bedeutung, scrive Löwith), ma che non possono essere ridotte a un’unica vicenda di senso ( Sinn, la battaglia dell’Uomo per o contro Dio).
Chi avrà ragione? Prendere posizione su questi problemi è difficile, forse impossibile, per chi come noi è parte in causa e non potrà mai conseguire uno sguardo d’insieme. Di certo, però, sarebbe un peccato trascurare questa saggezza antica, lucida e disincantata, mai stanca di ricordarci la nostra fragilità. Perché in un mondo in cui tutto ha senso, anche le atrocità peggiori finiscono per trovare una giustificazione, come parte necessaria del disegno. Lo sapeva bene Hegel, il filosofo della storia per eccellenza, che aveva avuto la fortuna di vedere lo «spirito del mondo a cavallo» (Napoleone), ed era sempre pronto a scrollarsi di dosso con un gesto di superiore indifferenza i lamenti delle anime belle che piangevano le tante tragedie della storia: «Più di un fiore innocente sarà calpestato». Così è e così deve andare. Idee lontane anni luce dalla profonda umanità di Scipione davanti alle rovine di Cartagine, in lacrime nel momento del trionfo, consapevole che la sorte toccata ai nemici sarebbe prima o poi toccata anche alla sua patria. Avevano il senso della misura, gli antichi. Sarebbe bello che le guerre sparissero e che gli uomini vivessero in pace. L’esperienza, purtroppo, insegna che così non sarà. Vero. Ma non per questo bisogna sforzarsi di giustificare «il mattatoio della storia» (è sempre Hegel) invocando un disegno ultimo e provvidenziale, che ci conduce con passo marziale verso una meta che ancora non conosciamo ma che presto splenderà.
Forse sarebbe più realistico riconoscere che non tutto ha senso, nelle storie degli uomini, e che anche caso o Fortuna giocano la loro parte. Difficilmente, oggi, potrà capitare di vedere due nemici che si abbracciano, come Achille e Priamo nell’Iliade, prima di tornare in battaglia (e gli esempi si potrebbero moltiplicare, come si ricava da un altro bel volume, da poco pubblicato da Mimesis, Uomini contro. Tra l’Iliade e la grande guerra). Ci vuole troppo coraggio per riconoscere la propria debolezza, per riconoscere che forse non siamo indispensabili: «La coscienza storica moderna non sa più pensare insieme il passato e il futuro perché si rifiuta di ammettere che tutte le cose terrene sorgono e tramontano».
Del resto, dovremmo sempre ricordarci che non ci siamo solo noi. Una delle poesie più belle di Wisława Szymborska, premio Nobel, descrive quello che succede in un luogo in cui si è combattuta una battaglia: si portano via i cadaveri, si ricostruisce quello che si era distrutto, si fa ordine («in fondo un po’ di ordine da solo non si fa»); intanto l’erba ricresce, e la memoria di quella tragedia si fa più vaga; «chi sapeva/ di che si trattava/ deve far posto a quelli/ che ne sanno poco./ E meno di poco./ E infine assolutamente nulla». E su quell’erba, dov’era colato tanto sangue, ora si rilassa qualcuno, «disteso,/ con una spiga tra i denti,/ perso a fissare le nuvole».
C’è qualcosa di straziante nel tempo che tutto cancella, nella consapevolezza che in fondo tutto quello per cui siamo pronti a lottare è destinato a cadere nel silenzio («o buio, buio, buio. Tutti vanno nel buio/ nei vuoti spazi interstellari, il vuoto va nel vuoto», scriveva un altro Nobel, Thomas S. Eliot). Ma c ’è anche qualcosa di salutare. L’ossessione per la linea del tempo restringe la visuale, punta i riflettori su alcune vicende soltanto, e dimentica il tempo del mondo intorno a noi, un mondo che non procede in linea retta verso un futuro scritto, ma che si ripete continuamente in un movimento ciclico, dentro e fuori di noi: il giorno e la notte, l’estate e l’inverno, la rotazione delle stelle e la circolazione del sangue. La vita e la morte.
Questo tempo circolare non è della natura soltanto, come se fosse altro da noi; è parte della nostra esperienza, scandisce le tante nostre attività quotidiane, come nel quadro di Paolo Uccello in cui nello stesso campo si confondono i soldati che combattono e i cacciatori impegnati in una battuta. A Löwith piaceva invece un quadro di Pieter Bruegel il Vecchio, La caduta di Icaro: un quadro enigmatico in cui la vicenda di Icaro (il tentativo dell’uomo di conquistare il cielo) è relegata in un angolo, quasi che fosse un evento marginale; e intanto gli altri uomini continuano con i loro lavori, mentre il sole risplende sui campi, i boschi, il mare. «All’orizzonte il mare e il sole, sulla riva siede un pescatore, nella campagna un pastore con il suo gregge e un contadino che ara la terra, come se tra cielo e terra nulla fosse accaduto».
La storia, quella dei grandi uomini che vogliono conquistare il mondo, è evento marginale rispetto al tempo del mondo: perché dovrebbe essere meno importante la vita del contadino o di chi ogni giorno, faticosamente e pazientemente, rinnova il ciclo dell’esistenza? «A tale vista mi abbandona sempre la certezza/ che ciò che è importante/ sia più importante di ciò che non lo è»: è ancora la Szymborska a scrivere. Anche questo ci insegna la saggezza degli antichi, ad allargare il nostro sguardo, senza mai farsi troppe illusioni. Non c’è nessun potere salvifico nella natura, nessun Dio nascosto: c’è semplicemente un immenso universo che si dispiega davanti e dentro di noi con il suo spettacolo grandioso. «Qual è la morale» di tutto questo? «Forse nessuna./ Di certo c’è solo il sangue che scorre/ e, come sempre, qualche fiume, qualche nuvola./ E non c’è niente da fare —/ lo spettacolo si diverte».
Più pacatamente, anche Löwith esprimeva pensieri analoghi: «Il discorso sulla mancanza di senso, così come quello sulla non esistenza di Dio, è ambiguo. Può significare che la storia non ha senso; ma può anche significare che ci siamo liberati in positivo della questione del senso, che ne siamo liberati perché non attendiamo più che la storia possa dare alla vita dell’uomo un senso che, senza di essa, potrebbe anche non avere». Si ripete sempre che Dio è morto e che la nostra esistenza non ha più valore in questo universo infinito e indifferente. Che una vita nata dal caso non può avere valore. Eppure siamo qui, e viviamo: noi e quello che ci circonda; nel presente, non nel futuro. E se ci sforzassimo a comprendere la meraviglia di tutto questo? Le linee rette sono importanti, ma non bisogna dimenticare i cerchi.