Corriere della Sera - La Lettura
Caro giudice, caro detenuto Il carteggio arriva a teatro
Trent’anni fa Elvio Fassone condannò Salvatore a rimanere in carcere a vita. Da allora il magistrato e il detenuto dialogano per lettera. Il loro carteggio speciale, diventato il libro «Fine pena: ora», è stato trasformato in un testo teatrale. Questa è l
Al termine di un maxi-processo estenuante, un giudice condanna all’ergastolo un imputato di nemmeno trent’anni, di nome Salvatore. La sera stessa, in uno slancio di umanità che lo spinge oltre i confini del suo ruolo istituzionale, gli scrive una lettera. Insieme alla lettera manda a Salvatore un libro, come se là dentro si trovasse la chiave per sopravvivere al futuro che lui stesso ha decretato leggendo la sentenza. Il ragazzo, invece di mandarlo al diavolo, risponde alla lettera. Comincia così un carteggio destinato a durare per il resto della vita, e che continua ancora oggi.
È all’incirca tutto quello che sapevo della storia di Elvio Fassone e Salvatore quando l’incarico di portarla a teatro mi è stato proposto. Un breve resoconto telefonico, nulla di più. Eppure ho accettato subito. Quello spunto narrativo, che sapevo reale, è stato sufficiente a riempirmi la testa con le sue implicazioni struggenti, domande delle quali ogni narratore è sempre alla ricerca: qual è il fine della giustizia? che rilevanza ha in esso il pentimento? quanto incide l’attenuante della giovinezza? e quali contraddizioni si celano dietro l’espressione «pena perpetua»? Ancora: che cos’è un’educazione? Chi sono davvero un padre e un figlio?
Soltanto in un secondo momento ho letto il libro di Fassone dove ho trovato riproposti, seppure spesso taciuti con riserbo, gli stessi dubbi. L’ho letto una, due, tre volte per intero, e non so quante altre a pezzi, all’inizio lasciandomi solo trasportare, poi prendendo appunti, infine selezionando fra quegli appunti. Scrivere consiste per lo più nel risolvere problemi. E via via che la vicenda raccontata da Fassone mi passava sottopelle, individuavo con maggiore chiarezza quali sarebbero state le difficoltà di una drammaturgia tratta da Fine pena: ora. In un certo senso posso dire adesso che il testo teatrale è costruito innanzitutto a partire da quelle difficoltà — dalle difficoltà e insieme dalla volontà ferrea di mantenere intatto il nucleo della storia di Salvatore e del magistrato, che era stata capace di conquistarmi nel tempo di una telefonata.
L’asimmetria fra i protagonisti è stata la prima delle preoccupazioni. Mi era chiaro che Fine pena: ora dovesse essere un dialogo, con entrambi i protagonisti sulla scena, un rapporto il più possibile paritario. Ma, se il libro offriva una disamina accurata della vicenda processuale e carceraria di Salvatore, così come della sua personalità e delle sue sofferenze private, il giudice non vi era davvero presente in quanto personaggio. La sua era una voce accorata, tormentata alle volte, ma pur sempre incorporea. Il bisogno del giudice, il suo dispiacere segreto, così essenziali per far respirare ogni personaggio, andavano immaginati, probabilmente inventati. È stata questa la prima necessaria licenza, l’oggetto della sola conversazione «di presenza», come direbbe Salvatore, che ho avuto con Elvio Fassone.
D’altra parte, c’era una zona irraggiungibile in Salvatore stesso. Non riguardava tanto le sue origini o il suo passato criminoso, né il presente del carcere, bensì il suo linguaggio. Nel libro compaiono alcune frasi pronunciate o scritte da lui, ma molte altre sono mediate dal giudice. Ho compreso che nel complesso non mi sarebbero state sufficienti a penetrare il suo modo così speciale di esprimersi. Potevo imporgli una voce, certo, ma sarebbe stato giusto? Proprio come il magistrato, anche l’autore di quelle frasi era vivo, sebbene non avessi la possibilità di incontrarlo. Così ho pensato di ripartire dalle lettere. Con un atto di fiducia Fassone mi ha consegnato quelle che aveva ricevuto, tutte, trent’anni di lettere, la metà esatta di una vita epistolare. Sono uscito da casa sua reggendo un sacco pieno. Le ho lette in ordine cronologico, una decina al giorno, destreggiandomi nella calligrafia faticosa e nelle formule di cortesia — «Caro Presidente, spero di trovarla bene e lo stesso posso dirle di me...» —, finché sono stato in grado di anticipare molte delle espressioni, finché ho sentito nelle orecchie quel ritmo a metà fra il parlato e una scrittura formale e ossequiosa. Il Salvatore in scena parla spesso come il Salvatore delle lettere, in quel registro privato che esiste soltanto fra lui e il giudice.
Trent’anni di lettere. Ed ecco l’ultima questione: il tempo, che a teatro è sempre un nemico. Come far scorrere trent’anni in poco più di sessanta minuti? Dopo avere scandito le date nelle quali si svolgeva il rapporto a distanza fra i due protagonisti, ho fatto del mio meglio, stesura dopo stesura, per eliminare quella struttura sottostante, per nasconderla, confonderla. A teatro Salvatore e il suo giudice si parlano «fuori dal tempo», o per meglio dire, come «dimentichi del tempo». Vivono in un qui e ora, ma possono tornare ad abitare improvvisamente il passato. Sono fantasmi in grado di attraversare non solo i muri del carcere, ma anche gli anni. Fantasmi, sì, perché ognuno è lo spettro immateriale evocato dall’altro. Si trovano entrambi nella stessa stanza, sullo stesso palcoscenico, eppure sono costantemente separati, il giudice nella propria casa e Salvatore dentro la sua cella, insieme e tuttavia da soli — proprio come accade anche a noi ogni volta che scriviamo una lettera a qualcuno.