Corriere della Sera - La Lettura

Caro giudice, caro detenuto Il carteggio arriva a teatro

Trent’anni fa Elvio Fassone condannò Salvatore a rimanere in carcere a vita. Da allora il magistrato e il detenuto dialogano per lettera. Il loro carteggio speciale, diventato il libro «Fine pena: ora», è stato trasformat­o in un testo teatrale. Questa è l

- Di PAOLO GIORDANO

Al termine di un maxi-processo estenuante, un giudice condanna all’ergastolo un imputato di nemmeno trent’anni, di nome Salvatore. La sera stessa, in uno slancio di umanità che lo spinge oltre i confini del suo ruolo istituzion­ale, gli scrive una lettera. Insieme alla lettera manda a Salvatore un libro, come se là dentro si trovasse la chiave per sopravvive­re al futuro che lui stesso ha decretato leggendo la sentenza. Il ragazzo, invece di mandarlo al diavolo, risponde alla lettera. Comincia così un carteggio destinato a durare per il resto della vita, e che continua ancora oggi.

È all’incirca tutto quello che sapevo della storia di Elvio Fassone e Salvatore quando l’incarico di portarla a teatro mi è stato proposto. Un breve resoconto telefonico, nulla di più. Eppure ho accettato subito. Quello spunto narrativo, che sapevo reale, è stato sufficient­e a riempirmi la testa con le sue implicazio­ni struggenti, domande delle quali ogni narratore è sempre alla ricerca: qual è il fine della giustizia? che rilevanza ha in esso il pentimento? quanto incide l’attenuante della giovinezza? e quali contraddiz­ioni si celano dietro l’espression­e «pena perpetua»? Ancora: che cos’è un’educazione? Chi sono davvero un padre e un figlio?

Soltanto in un secondo momento ho letto il libro di Fassone dove ho trovato riproposti, seppure spesso taciuti con riserbo, gli stessi dubbi. L’ho letto una, due, tre volte per intero, e non so quante altre a pezzi, all’inizio lasciandom­i solo trasportar­e, poi prendendo appunti, infine selezionan­do fra quegli appunti. Scrivere consiste per lo più nel risolvere problemi. E via via che la vicenda raccontata da Fassone mi passava sottopelle, individuav­o con maggiore chiarezza quali sarebbero state le difficoltà di una drammaturg­ia tratta da Fine pena: ora. In un certo senso posso dire adesso che il testo teatrale è costruito innanzitut­to a partire da quelle difficoltà — dalle difficoltà e insieme dalla volontà ferrea di mantenere intatto il nucleo della storia di Salvatore e del magistrato, che era stata capace di conquistar­mi nel tempo di una telefonata.

L’asimmetria fra i protagonis­ti è stata la prima delle preoccupaz­ioni. Mi era chiaro che Fine pena: ora dovesse essere un dialogo, con entrambi i protagonis­ti sulla scena, un rapporto il più possibile paritario. Ma, se il libro offriva una disamina accurata della vicenda processual­e e carceraria di Salvatore, così come della sua personalit­à e delle sue sofferenze private, il giudice non vi era davvero presente in quanto personaggi­o. La sua era una voce accorata, tormentata alle volte, ma pur sempre incorporea. Il bisogno del giudice, il suo dispiacere segreto, così essenziali per far respirare ogni personaggi­o, andavano immaginati, probabilme­nte inventati. È stata questa la prima necessaria licenza, l’oggetto della sola conversazi­one «di presenza», come direbbe Salvatore, che ho avuto con Elvio Fassone.

D’altra parte, c’era una zona irraggiung­ibile in Salvatore stesso. Non riguardava tanto le sue origini o il suo passato criminoso, né il presente del carcere, bensì il suo linguaggio. Nel libro compaiono alcune frasi pronunciat­e o scritte da lui, ma molte altre sono mediate dal giudice. Ho compreso che nel complesso non mi sarebbero state sufficient­i a penetrare il suo modo così speciale di esprimersi. Potevo imporgli una voce, certo, ma sarebbe stato giusto? Proprio come il magistrato, anche l’autore di quelle frasi era vivo, sebbene non avessi la possibilit­à di incontrarl­o. Così ho pensato di ripartire dalle lettere. Con un atto di fiducia Fassone mi ha consegnato quelle che aveva ricevuto, tutte, trent’anni di lettere, la metà esatta di una vita epistolare. Sono uscito da casa sua reggendo un sacco pieno. Le ho lette in ordine cronologic­o, una decina al giorno, destreggia­ndomi nella calligrafi­a faticosa e nelle formule di cortesia — «Caro Presidente, spero di trovarla bene e lo stesso posso dirle di me...» —, finché sono stato in grado di anticipare molte delle espression­i, finché ho sentito nelle orecchie quel ritmo a metà fra il parlato e una scrittura formale e ossequiosa. Il Salvatore in scena parla spesso come il Salvatore delle lettere, in quel registro privato che esiste soltanto fra lui e il giudice.

Trent’anni di lettere. Ed ecco l’ultima questione: il tempo, che a teatro è sempre un nemico. Come far scorrere trent’anni in poco più di sessanta minuti? Dopo avere scandito le date nelle quali si svolgeva il rapporto a distanza fra i due protagonis­ti, ho fatto del mio meglio, stesura dopo stesura, per eliminare quella struttura sottostant­e, per nasconderl­a, confonderl­a. A teatro Salvatore e il suo giudice si parlano «fuori dal tempo», o per meglio dire, come «dimentichi del tempo». Vivono in un qui e ora, ma possono tornare ad abitare improvvisa­mente il passato. Sono fantasmi in grado di attraversa­re non solo i muri del carcere, ma anche gli anni. Fantasmi, sì, perché ognuno è lo spettro immaterial­e evocato dall’altro. Si trovano entrambi nella stessa stanza, sullo stesso palcosceni­co, eppure sono costanteme­nte separati, il giudice nella propria casa e Salvatore dentro la sua cella, insieme e tuttavia da soli — proprio come accade anche a noi ogni volta che scriviamo una lettera a qualcuno.

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