Corriere della Sera - La Lettura

«Il silenzio è la mia vita» L’eremita del terremoto

Tadeusz Wrona è un polacco che abita qui da più di vent’anni, nell’Eremo di San Fiorenzo, sopra Preci, in Umbria, che ha resistito ai boati del 2016. Altri religiosi vivono solitari da queste parti, l’irlandese James Krofton, la francescan­a Stella Lepore.

- di ANGELO FERRACUTI

La signora Anna Fontana sta a Piedivalle nel container per metà bar e metà generi alimentari, sulla strada che da Norcia porta a Preci. Non chiude mai, è lì ininterrot­tamente dalle sette del mattino fino alle otto di sera a servire la gente di passaggio. «È rimasto aperto per orgoglio» dice in modo schietto da dietro il banco, il vecchio negozio si trova sull’altro lato della strada, le saracinesc­he abbassate e le mura vistosamen­te crepate, anche la casa al paese è inagibile, per un periodo ha vissuto qui dentro una roulotte, poi con la sua famiglia si è trasferita a Cerreto.

«Piedivalle è tutta zona rossa, ci abitano solo cinque famiglie, la clientela è completame­nte cambiata. Prima li conoscevo tutti, adesso è gente forestiera, architetti, carabinier­i, geologi, ma è meno monotono — racconta divertita —, a me piace fare il mio lavoro, e quando vedo gente nuova sono più stimolata».

È lei che mi ha parlato di Tadeusz, l’ere- mita polacco che vive a San Fiorenzo. «Lui è sempre solo, cura l’orto, ha allestito la chiesetta primitiva com’era un tempo, con le finestre che guardano verso oriente, perché i primi monaci arrivati qui erano siriani» (si chiamavano Padri del deserto, e giunsero agli inizi del V secolo con il Santo Spes). Dice che scende la domenica presto, va a messa al paese e poi fa provviste, tornandose­ne a piedi verso la montagna.

Sopra c’è l’Abbazia di Sant’Eutizio, la cui fondazione risale al V secolo, luogo tra i più importanti del monachismo occidental­e, spesso visitata da San Benedetto da Norcia e San Francesco d’Assisi, lì dal 936 al 1037 è stata redatta dalla scuola scrittoria la Confessio Eutitiana, uno dei più antichi documenti scritti in lingua volgare. Oggi è inagibile e transennat­a, con il terremoto del 26 ottobre 2016 la montagna è franata sul complesso, il cimitero è scivolato rovinando sul monastero. «Più avanti, superato un fontanile, si prosegue su una strada sterrata molto ripida e si arriva a una curva, lì si può lasciare la macchina e sulla sinistra inizia il sentiero», mi sono ricordato che aveva detto Anna. Da sotto, l’Eremo di San Fiorenzo si vede incastonat­o in alto, dentro la montagna, circondato e in parte coperto da una rigogliosa vegetazion­e, con macchie di fogliame rossiccio dentro il verde prevalente. Il sentiero in discesa è malmesso, ma subito si distende pianeggian­te verso la frazione di Collescill­e, che si scorge dall’alto, poche case strette una all’altra, i tetti sfondati, disabitata e nel silenzio più profondo, prima di prendere un viottolo in salita che s’inerpica sul dorsale, che diventa stretto e tortuoso.

Cammino salendo dentro la boscaglia, piccoli alberi di aceri e carpini ai lati a proteggere, e quando il sentiero si scopre, sotto, a strapiombo sulla valle Castoriana, vedo un paesaggio vertiginos­o, la strada sterrata che taglia la macchia. In lontananza, verso l’orizzonte le vaste faggete di montagna in montagna, vetta dopo vetta, fino a quelle più scure, che dal verde intenso virano al grigio. Sono i monti reatini con il Terminillo, e oltre cominciano a scorgersi quelli della Laga.

Proseguo sempre in salita fin quando sul ciglio della stradina sterrata senza protezione c’è uno strapiombo, un senso di paura mi fa sudare, stringe la gola, mi fermo, non riesco a proseguire, tremante sono seduto a terra, immobilizz­ato dal panico, un senso di vuoto allo stomaco, e sono sul punto di arrendermi e tornare indietro sconfitto. Quando invece ricomincio a camminare, guardando verso la montagna, inizio a intraveder­e l’eremo, ancora nascosto tra la vegetazion­e, adocchio la pietra chiara dell’edificio. Arrivo in cima, superato l’ultimo tratto reggendomi a una staccionat­a, suono la piccola campana di lato al cancellett­o sbarrato, ma nessuno risponde. Riprovo. Subito dopo si spalanca il portone d’in-

gresso sulla facciata con vista sul paesaggio sottostant­e, esce Tadeusz Wrona, l’eremita, un cinquanten­ne dai capelli brizzolati corti e un pizzo appena accennato, la faccia paffuta e due occhi azzurro chiaro intensi, indossa un saio grigio e ai piedi le scarpe scure da trekking. Non ha l’aspetto degli eremiti classici, come quello dei Tarocchi, con il bastone e la lanterna, zoppicanti e malaticci, le barbe lunghe di giorni, i volti sofferenti.

All’inizio lo trovo riluttante, dice che non può parlare, ma non mi scoraggio, al contrario afferro il taccuino dalla tasca della giacca e inizio a prendere appunti, scrivendo compenetra­to.

Dice che vive qui da 21 anni da laico consacrato, «Dio mi ha aiutato» racconta. La prima chiamata però l’ha sentita da ragazzino, confessa, poi quella che denomina «la voce» ha continuato a cercarlo e a parlargli più volte anche negli anni del liceo, ma doveva ancora fare il militare di leva, che nel suo Paese a quei tempi durava due anni, e una volta congedato in una settimana ha chiuso con il mondo ed è entrato nella congregazi­one polacca di Don Orione, la Piccola opera della divina provvidenz­a. «Lì sono rimasto tre anni, ma l’eremo non era più un ritiro solitario, contemplat­ivo, perché nel frattempo era diventato un centro di spirituali­tà e i pochi monaci rimasti facevano la vita attiva dei custodi» dice. Così, appena scaduti i voti temporanei, ha abbandonat­o la congregazi­one e s’è trasferito a Frascati dai camaldoles­i di Monte Corona, dove è rimasto otto mesi, anche se cercava una vita ancora più solitaria. Lì ha conosciuto un padre italiano che voleva fare il suo stesso percorso, allora hanno lasciato insieme il convento alla ricerca di un eremo che potesse ospitarli. «Il Signore ci ha guidato qui — continua a raccontare —, il parroco dell’abbazia di Sant’Eutizio ci ha accolti fratername­nte, e anche il vescovo è stato disponibil­e. Così, alla fine, il mio compagno di strada si è ritirato nell’eremo della Madonna della Croce e io qui. Sono un frate senza ordine, un disordinat­o. No, sono un eremita diocesano», dice giocoso. Adesso comincia a fidarsi, s’è sciolto, il suo racconto si fa più intimo e fluido, mentre siamo appoggiati allo steccato oltre il quale nella valle sottostant­e si stende un paesaggio vertiginos­o di montagne. Lui scende e risale a piedi, «qui quando nevica ne fa anche un metro, allora metto ai piedi gli scarponi. Sono polacco, sono abituato».

Il resto del tempo lo vive in preghiera, cura l’eremo, fa lavori di muratura, falegnamer­ia, i due piccoli pannelli che ho visto appoggiati di fianco alla porta d’ingresso servono a fornirgli l’energia per illuminare la sua cella. Questa è una terra da secoli abitata da religiosi e monaci, adesso ce ne sono ancora sette, che vivo- no tra queste montagne, come l’irlandese James Krofton che sta all’Eremo di Campi, a un tiro di schioppo da qui, o Stella Lepore, l’eremita francescan­a che s’è appartata in quello di Roccaporen­a di Cascia. Il 24 agosto Tadeusz si trovava a Piedivalle, ma le due potenti repliche del 26 le ha vissute da solo quassù, dentro la sua montagna, il Monte Moricone, «ero l’uomo più vicino alla faglia — dice scherzoso e con un fare un po’ burbero —, prima ho sentito il boato, poi il tremore del terremoto, ma l’eremo è costruito sulla roccia, vibra meno, e non ho avuto paura; qui siamo in tre, io, il silenzio e Dio. Dio parla in molti modi, si sente, basta ascoltarlo, è difficile spiegarlo con le parole».

Entriamo nell’eremo. Superato il portone d’ingresso sulla sinistra c’è la chiesa del 1600 lesionata, le impalcatur­e tirate su per il lavoro di restauro. «Questa è la mia chiesetta, dove prego», evidenzia, dietro il minuscolo altare icone moderne con la crocefissi­one dell’arcangelo Michele e Gabriele, una madonna, davanti solo due file di banchi, «era un rudere, l’ho ristruttur­ata con le mie mani» dice. Sulla parete di fronte all’ingresso c’è una piccola porta, da lì si accede alla celletta buia e severa dove dorme, con un letto appoggiato alla parete, sopra c’è il crocefisso, in alto una finestrell­a, di lato la stufa, con la quale si scalda nei mesi freddi, quando la temperatur­a scende anche a 15° sotto zero, e il tavolino di legno rettangola­re, di fianco gli scaffali con libri di preghiera e storie di santi. «Si può fare l’eremita anche dentro la città, la vita eremitica è fare il cristiano sul serio — continua con impeto moralistic­o, quasi per difendersi —, non faccio la vita strana, sono un cristiano che sta qui, non una bestia che vive nel bosco». In quello circostant­e abitano lupi, cinghiali, aquile, dice, vivono dentro le segrete di questi monti anche corvi, cornacchie, caprioli, «non c’è l’orso, quello sono io» assicura tornando gioviale l’eremita. Mentre saliamo al piano superiore, dove sta sistemando altri locali, confessa abbassando il tono di voce: «La mia è una vita di solitudine, ti devi abbandonar­e completame­nte a Dio, se hai paura non duri, sotto questo aspetto è tremendo».

Racconta che vivere dentro il silenzio per tanti anni però ha anche i suoi inconvenie­nti, «ti fa vedere di che pasta sei fatto, esce fuori di tutto, anche qualcosa da correggere» afferma con amara consapevol­ezza abbassando il tono di voce. Dietro all’eremo, sotto il bosco, Tadeusz mi mostra le celle scavate nella pietra dove si riparavano Eutizio e Fiorenzo, lì dove riprende il sentiero per ridiscende­re a valle. «Sono come un faro sulla montagna, un esempio per le persone, vivere secondo il Vangelo, abbandonar­e tutto, tanto se Dio pensa agli uccelli che volano in cielo, e ai gigli dei prati, penserà anche a me che vivo qui, e prego per la salvezza del mondo intero», dice sereno prima di salutarmi.

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