Corriere della Sera - La Lettura
L’altra faccia di Kerouac pittore «on the road»
Riscoperte Non avremmo potuto amare così tanto l’autore di «On the road» senza l’aiuto di Nanda Pivano, più di una traduttrice. Allo stesso modo, non lo avremmo potuto apprezzare soltanto per i suoi dipinti, presto in mostra al museo Maga di Gallarate. Ep
Avremmo amato così tanto Jack Kerouac senza l’opera di traduzione realizzata da Fernanda Pivano, traduttrice non soltanto letterale ma nel senso etimologico del termine, da quel ducere latino che fa di lei la «portatrice» dell’opera e delle avventure della Beat generation a un pubblico italiano pronto a lasciarsi incantare dall’infinitezza di quello spazio americano, da quei flussi di parole non costrette da torturanti regole secolari, dalla forza e dalla follia di quegli andirivieni illuminati e tossici che ci avrebbero richiamati a uno stacco individuale — anche drammatico, anche politico — dalla rigidità di un Paese cattolico e comunista, provinciale per sempre? Probabilmente no.
E avremmo potuto amare così tanto Kerouac a partire dalle sue sole opere pittoriche esposte al Maga di Gallarate? No, altrettanto probabilmente.
Questo per dire come sia sempre più difficile a partire dall’Ottocento affrontare un’opera senza considerare il complesso di vita del suo autore, quasi che non sia pensabile — soprattutto a livello etico — una soluzione di continuità tra questa e questo.
L’esposizione di Gallarate risulta dunque preziosissima nell’allargare la visione su un autore troppo spesso imprigionato entro la fama del suo bestseller più famoso — Sulla strada, pubblicato nel 1957 — romanzo che lo confina in un’immagine vitalistica e protesa che non rappresenta che una parte del suo percorso complessivo, fatto anche di un doloroso pessimismo e della prefigurazione dell’appiattimento che avrebbe proseguito l’ubriacatura beat e i decenni Sessanta e Settanta del secolo scorso. Tanto più preziosa la frase che accompagna la comunicazione dell’evento al Maga, tratta da un Kerouac — scrittore — perfettamente consapevole del proprio talento: «In pochi anni potrei diventare un pittore di primo piano. Se lo voglio. E quando potrò vendere i miei dipinti potrò comperarmi un pianoforte e comporre musica».
Non ce la farà, portato via a 47 anni da una cirrosi epatica a differenza di quanto avverrà per la maggior parte degli esponenti di quella corrente artistica, tutti molto longevi a dispetto di una vita caparbiamente sregolata. Ma quella sua intuizione vale, e insegna non tanto a comporre la propria vita come opera d’arte — concetto in sé inutilmente decadente — ma a considerare la propria arte come espressione in simultanea della propria biografia.
«I miei ricordi sono scritti di volta in volta, e non dopo in un letto di malato». L’io narrante diventa io narrato, i nomi dei suoi personaggi — tutti autenticamente al suo fianco — una costrizione editoriale cui sottomettersi a fatica. E la pagina scritta, la tela dipinta, lo spartito composto diventano altari sui quali offrirsi. «Dipingo solo belle cose», leggiamo nel catalogo della mostra: la sfacciataggine di quella generazione nel saltare da una disciplina all’altra, da un letto all’altro, da una droga all’altra, da un’ubriacatura all’altra, consumando sé stessi in opposizione al consumismo delle merci che proprio negli anni Cinquanta si stava imponendo come ideologia dominante. Nessun entusiasmo per gli elettrodomestici, gli apparecchi televisivi, le innovazioni tecnologiche, le casette arredate.
Contro tutto questo si ostenta il disinteresse più assoluto, la negazione, così bene espressa in anni immediatamente successivi con la cantilena del nothing declamata da The Fugs — collettivo poetico musicale di New York — nella loro composizione omonima: « Monday nothing/ Tuesday nothing/ Wednesday, Thursday nothing/ Friday for a change a little more nothing/ Saturday once more nothing ».
Solo la strada conta, l’uscire dagli uffici o studi ben apparecchiati per gettarsi nella polvere, nel fumo, nella folla, su quelle auto dove ogni atto diventa eroico, contrappositivo, dove la visione del prossimo è sempre whitmanianamente accelerata e l’empatia abbraccia tutte le razze popolari e tutti i mestieri di quel territorio senza dimensioni, dalla New York della fredda co- sta orientale fino a quella California dove, essendo l’America un piano inclinato, tutte le cose senza radice prima o poi finiscono per rotolare.
Sulla strada. Il titolo è già un proclama, una dichiarazione di poetica; e che lontananza di visione con l’America attuale sempre più corazzata contro ogni pericolo che provenga da «là fuori», da quell’out there che nemmeno le riesce di esprimere con un sostantivo più chiaro e definito di una perifrasi per esorcizzare le sue angosce da accerchiamento. On the road verrà scritto in 20 giorni senza pause sopra un unico ininterrotto rullo di carta, The Subterraneans in «tre notti di luna piena ottobrina» sotto l’effetto di benzedrina. Uno «choc telepatico con il lettore», così Kerouac interpreta il rapporto che intende instaurare con il suo pubblico, grazie a una prosa non calcolata, torrenziale, capace di gettare legami che vanno oltre il senso letterale delle frasi e che colpiscono i desideri facendoli emergere da profondità negate.
In questa attitudine risiede forse anche il nucleo delle sue opere grafiche e pittoriche esposte al Maga, che ci consente di analizzare il «labirintico processo creativo», come viene definito nel catalogo, che sottende tutto il lavoro dell’autore. In Kerouac, maggiormente che nei suoi compagni di vita e di arte, è forte il richiamo del ritorno, della nostalgia diretta verso casa. Fino alla fine visse con la madre, sempre usò per sé il soprannome Ti Jean — Petit Jean, piccolo Jean — così come veniva chiamato nella sua famiglia di stirpe francese. Sappiamo che adorò il ceppo linguistico bretone da cui derivava il cognome paterno, quelle parole Ker Ouac che designano la «casa nei campi». La terra, la semplicità, lo spazio, la mano che lavora. Luoghi di ultimo riposo cui ritornare, dopo «la furibonda azione, la follia e la dolcezza soave», così come scrive in apertura di Big Sur.
«Voglio, quando sarò vecchio, riunire tutti i miei libri, reinserirvi il mio Pantheon di nomi uniformi, lasciare il lungo scaffale pieno di volumi, e morire felice».
Beat; battuto, battito, battuta. Beato, finalmente.