Corriere della Sera - La Lettura
Tra le rovine della mia infanzia
Ho trascorso ad Amatrice ogni agosto della mia vita fino alla prima giovinezza. La grande casa, capace di assorbire il parentado quasi al completo anche durante la congestione estiva, era stata acquistata dal nonno materno, esponente della fiera schiera d
Il 24 agosto 2016, appena rientrato a Roma dopo una breve vacanza all’estero, poco prima delle quattro del mattino sono stato svegliato dal rumore dei miei occhiali che cadevano per terra. Che strano, ho imparato da bambino a riporre con cura il mio amato bene al centro del comodino, mai sull’orlo. Mentre questi pensieri affollavano la mente ancora confusa mi sono reso conto che la forza magica che aveva scaraventato sul pavimento gli occhiali si era impossessata di tutto il resto, squassando letto, armadio, fondamenta in un fremito implacabile e sinistro. Il tempo di accendere l’abat-jour e la più spaventosa parola del nostro lessico mi ha occupato il cervello: TERREMOTO. Qualche anno prima avevo vissuto un’esperienza analoga in quello stesso letto durante un evento sismico avvenuto più o meno alla stessa ora a L’Aquila. Ho acceso la tv in attesa di una breaking news che svelasse l’epicentro.
Ero solo in casa, la mia compagna era via. Gettai un occhio sconsolato alla sua parte di letto intonsa, reprimendo la voglia di chiamarla. In tv ancora niente.
Per quanto sia banale notarlo, uno dei vantaggi del nostro secolo (ammesso che di vantaggio si tratti) è che non c’è colpo di Stato, inondazione, attentato terroristico, anche in capo al mondo, di cui non si venga informati immediatamente. Lo chiamano «tempo reale», come se ne esistesse uno fittizio. La vita è scandita da queste dirette tv infinite in cui te ne stai lì un po’ instupidito, in bilico tra commozione e voluttà, a contemplare gli effetti della malvagità umana e i capricci della natura, ma senza che la cosa ti riguardi davvero.
Forse anche per questo ho trovato così incongrua la scritta: SCOSSA DI TERREMOTO IN CENTRO ITALIA: EPICENTRO AD AMATRICE.
Ero ad Amatrice la settimana prima per una mega riunione di famiglia organizzata da mia madre e dalle sue sorelle. Avevano affittato il secondo piano di un ristorante in centro. Una di quelle rimpatriate in cui capisci quanto sei invecchiato da come ti guardano gli attempati interlocutori. Del resto, era un bel po’ che non tornavo ad Amatrice. Alla morte di mio nonno la casa è stata ereditata da una sorella di mia madre. Dopo pranzo, preso congedo dai parenti, camminando lungo il corso verso l’auto, avevo avvertito un moto confortante di familiarità mescolato a una vena di sconcerto.
Rimuginando su queste cose mentre la tv iniziava a dare le prime notizie allarmanti ho pensato che erava- mo in pieno agosto, che gli zii potevano essere lì, e forse anche i miei genitori. Ho chiamato mia madre sul telefonino. Ha risposto la voce insonnolita e allarmata di chi viene svegliato nel cuore della notte. Le ho chiesto dov’era. «A casa». «E zia?». «Pure lei, a casa, almeno credo. Perché?». Le ho detto di Amatrice. Per la prima volta nella mia vita l’ho sentita imprecare. Zia era tornata a Roma il giorno prima, mi ha rinfrancato, ma forse le cugine erano ancora lì. «Provo a cercarle», ha detto quasi attaccandomi in faccia.
Deve essere stato più o meno allora che ho sentito la voce di qualcuno in tv che diceva: Amatrice non c’è più.
Ho trascorso ad Amatrice ogni agosto dell’infanzia e adolescenza, e buona parte di quelli della prima giovinezza.
Se il luglio in vacanza studio, lontano da casa, fungeva da teatro ideale per le prime inconcludenti schermaglie romantiche, la villeggiatura in montagna serviva a cristallizzarle in felicità perdute.
Un paio di giorni dopo essere sbarcato a Roma, ancora sfasato dal brusco cambio di clima, habitat e idioma, partivo per Amatrice con mio fratello, mio padre e mia madre. Una festa visto che mio padre lavorava in una città del nord dalla quale tornava di rado e non sempre volentieri, e mia madre si occupava con abnegazione dell’azienda di famiglia. Amatrice, allora, era l’occasione propizia, e per me così deliziosa, di stare per una volta tutti assieme, con il vantaggio supplementare di mescolarsi a nonni materni, zii e cugini. Una pacchia per i bimbi, un incubo per gli adulti.
La grande casa, capace di assorbire il parentado quasi al completo anche durante la congestione estiva, era stata acquistata da nonno proprio l’anno della mia nascita. Comprarla era stato la realizzazione di un sogno e la certificazione dell’avvenuta ascesa sociale. Nonno apparteneva alla schiera di amatriciani audaci (in realtà era di Sommati, una frazione minuscola, e non era audace per niente) calati a Roma dai monti per distinguersi nell’edilizia, nell’abbigliamento e nella ristorazione. Non si può dire che avesse il bernoccolo per gli affari. Si era fatto una posizione a forza di parsimonia, prudenza