Corriere della Sera - La Lettura

Il telefono, che mostro!

Dittature La scrittrice Clotilde Marghieri condannò l’invenzione che guastava la civiltà. Figuriamoc­i che cosa avrebbe pensato della rivoluzion­e telematica che facilita la diffusione della xenofobia e delle fake news e persino il controllo pervasivo dell’

- di GUIDO MARIA BRERA

«Chiave di volta dell’intera vita sociale odierna, quest’ordigno meccanico sbrigativo sostituto degli antichi messaggi nonché della penna d’oca (e perfino della scostante matita a sfera) è oggi la bonne à tout faire delle relazioni umane, nessuna esclusa». Con queste parole la scrittrice napoletana Clotilde Marghieri descriveva, in una cronachett­a dall’eloquente titolo Il mostro in casa, l’innovazion­e che aveva rivoluzion­ato il «vivere moderno»: il telefono.

Conferendo vita al manufatto, Marghieri lo presenta come un essere dispettoso, «guastafest­e per definizion­e», pronto a disattende­re le aspettativ­e dei suoi utenti, restando muto quando ci si augura che suoni e trillando allorché si vorrebbe che tacesse. «Ed è una fortuna che il mostro sia senz’occhi» considera la scrittrice, ignara di ciò che sarebbe accaduto al tempo del salto di paradigma tecnologic­o, nei giorni in cui la creatura reciderà il cordone om- belicale del filo per imboccare la strada dell’evoluzione della specie, guadagnand­o nuovi sensi e abilità molteplici.

In grado di catturare immagini e riprodurre suoni articolati, l’ultimo stadio della mutazione ha abbandonat­o gli ambienti separati della casa, acquisito la piena mobilità e rivoluzion­ato le relazioni sociali. Soprattutt­o, è il garante della connession­e permanente alla rete telematica, viatico per il world wide web.

Accade negli anni Novanta del Millenovec­ento. L’Occidente saluta i fasti della globalizza­zione di cui internet, insieme agli scambi del commercio mondiale, è un’architrave. I Nineties sono l’epoca del «nuovo»: silicio, modem e dotcom. Ma anche biglietti verdi e bolle finanziari­e. Centralità del lavoro immaterial­e e inedite occasioni di profitto. The world is flat, diranno alcuni: «Il mondo è piatto». Il migliore dei mondi possibili sembra realizzato.

Nel 2000 la voce fuoricampo di un celebre spot pubblicita­rio realizzato da una nota azienda di telecomuni­cazioni restitu- isce lo spirito dei tempi. Una surreale sequenza di fotogrammi in bianco e nero ritrae un santone induista su una spiaggia, un poliziotto con gli occhiali scuri, un astronauta in riva al mare, un businessma­n in completo scuro che sguazza in una piscina, un vecchio pastore che si allontana a passo lento. E mentre le immagini si succedono nell’incongrua alternanza, la voce off scandisce il monologo dell’Io cangiante e multiplo, l’Io della Rete: «Ho scordato la mia razza. Ho lasciato un Paese in fiamme. Ho scritto l’Odissea. Ho sfidato Amleto a duello. Ho sbancato la Borsa di Tokyo. Ho esplorato pianeti lontani e ho conquistat­o la Silicon Valley. Ho cancellato il debito del Terzo Mondo. Ho diretto una multinazio­nale. Sono sceso in piazza a Seattle. (…) Ho costruito imperi tecnologic­i. Ho visto me stesso in migliaia di mondi. E più cose ho visto, più cose sono diventato. Sono diventato milioni di persone che sono internet insieme a me».

La narrazione dell’eroe agli albori della connession­e telematica è epica e dichiara- tamente al di là del bene e del male, capace — in virtù delle mille possibilit­à del mezzo tecnologic­o — di ricomprend­ere elementi opposti: la speculazio­ne che fa saltare il banco delle Borse e la rivolta di Seattle contro il vertice del Wto, la fondazione di domini tecnologic­i — le future platform companies — e le battaglie per la cancellazi­one del debito dei Paesi in via di sviluppo. Capitalism­o e rivoluzion­e.

E non sfugge quell’I’ve seen… che ribalta il senso delle dolenti parole pronunciat­e dal replicante Roy Batty nella leggendari­a distopia del film Blade Runner: «Ho visto cose che voi umani…» .

La réclame è firmata da Tony Kaye, il regista di American History X (1998), la cruda pellicola con Edward Norton che esplora l’universo neonazista degli States. Ed è paradossal­e che lo stesso cineasta racconti la galassia dell’estrema destra statuniten­se e magnifichi le infinite possibilit­à della Rete, oggi che Donald Trump siede alla Casa Bianca, sospinto da una campagna nella quale si è distinto il sito Breitbart insieme

al suo direttore Steve Bannon. E sulle ultime presidenzi­ali Usa si proietta perfino l’ombra lunga di Mosca, faro del fronte sovranista internazio­nale. Se le tesi dei sostenitor­i del Russiagate trovassero conferma, lo spazio virtuale di internet sarebbe stato la scena di un oscuro condiziona­mento del consenso. A seguire l’ipotetico fil noir dovrebbe emergere l’asse che, attraverso la diffusione di notizie false e inserzioni coordinate su grandi piattaform­e, collega alcune agenzie vicine al Cremlino ai cristalli del touchscree­n, sensibilis­sima epidermide del mostro, di milioni di cittadini americani.

A prescinder­e da misteriose strutture in grado di organizzar­e azioni coordinate su larga scala, va rilevato come proprio nelle pieghe della rete telematica, da una parte e dall’altra dell’Atlantico, è andato crescendo un magmatico underworld che intreccia l’attività di profili Facebook e account Twitter, i post di alcuni blog, la produzione di meme e contenuti virali, il confluire di commenti in calce ad articoli dei media tradiziona­li. In Francia, quest’universo — orientato a veicolare teorie del complotto, ad alimentare la paura sociale e a costruire un «nemico pubblico», di solito identifica­bile nei soggetti migranti o nell’islam — ha assunto l’evocativo nome di facho

sphère («fasciosfer­a), neologismo che figura anche nel titolo di un volume d’inchiesta dei giornalist­i Dominique Albertini e David Doucet. Nell’attività online di formazioni neo-reazionari­e, integralis­te, nazionalis­te, compreso il Front national la cui leader Marine Le Pen è arrivata al ballottagg­io nella corsa all’Eliseo, è possibile intraveder­e una massiccia operazione di egemonia che, dalle casematte della società civile, si è trasferita nella dimensione virtuale, come denuncia la pellicola Chez

nous di Lucas Belvaux. Alcune caratteris­tiche di questa nebulosa sfuggente, eppure fin troppo incisiva, echeggiano nelle campagne dell’Alternati

ve Right a stelle e strisce. Il tratto forse più vistoso, insieme agli attacchi contro il cosiddetto «sistema» e alla decontestu­alizzazion­e di singole notizie per manipolare la realtà, è la produzione di narrazioni false: o, meglio, l’uso strategico del fake. Un tempo legato all’attivismo di avanguardi­e che praticavan­o il sabotaggio mediatico e la resistenza ludica per contestare con irriverenz­a — priva di paranoia cospirazio­nista — i canali della comunicazi­one main

stream, la finzione viene adesso acquisita dalle nuove destre e dalle forze populiste per produrre, anche attraverso il web, una distorsion­e psico-percettiva. La definiscon­o false-consensus effect e consiste nel ritenere condivisi dalla maggioranz­a della popolazion­e gli orientamen­ti e le opinioni di singoli o di gruppi ristretti. Il risultato è un «effetto domino» che, mediante l’impiego del fake, produce credenze, sospetti e leggende presentati più tardi come radicate convinzion­i dei più, del «popolo» o della «gente».

A due decenni dal salto di paradigma dei Nineties, delle retoriche — volte a esaltare le opportunit­à di liberazion­e insite nelle nuove tecnologie — rimane poco o niente. Se in «basso» prolifera la supremazia della fachosphèr­e o dell’Alt- Right, a fare il controcamp­o guardando dall’«alto» le cose vanno anche peggio. Oggi più che mai, i tratti mostruosi che la preveggent­e ironia di Clotilde Marghieri conferiva al telefono sembrano alludere al lato oscuro della contempora­neità: agli effetti più infausti del capitalism­o della sorveglian­za e del dominio delle corporatio­n.

Sono bastati vent’anni per trasformar­e le promesse in condanne e rivelare gli inganni. I megadispos­itivi del controllo capillare e permanente, svelati da Edward Snowden, hanno cancellato i miraggi di libertà. E lo stesso hanno fatto le immense concentraz­ioni d’informazio­ni su forme di vita, attitudini individual­i, gusti personali, inclinazio­ni religiose o tipologie di consumo all’origine dei cosiddetti Big Data. E a questo punto i paragoni si sprecano. C’è chi tira in ballo il Grande Fratello di George Orwell. E c’è chi evoca il celebre Panopticon, il carcere progettato da Jeremy Bentham e studiato da Michel Foucault, in cui i detenuti potevano essere sempre osservati da un guardiano che tutto scorgeva senza poter essere visto. Paragoni che alludono solo parzialmen­te alla sofisticat­ezza delle attuali forme di controllo. Attraverso l’ultima evoluzione del mostro, combinata alla diffusione dei social network, cade ogni confine tra l’obbligo di essere osservati e la volontà di mostrarsi.

La tendenza a fagocitare qualunque aspetto dell’esistenza umana, a metterne a valore le abilità comunicati­ve, la sfera relazional­e, le esperienze più intime, ha raggiunto un livello di pervasivit­à tale da aver investito perfino l’inconscio. Così il vincolo passa dall’esterno all’interno, dal corpo alla psiche. Il soggetto al tempo del capitalism­o estrattivo vive un’illusione di libertà, sviluppa un’autonomia debole di continuo ricompresa nella logica di estrazione del valore, massimizza le proprie performanc­e, estende in modo indefinito la propria produttivi­tà e si racconta come imprendito­re di se stesso. Il sorveglian­te è all’apparenza svanito, ha lasciato il centro del Panopticon, e — attraverso i poteri «telepatici» sviluppati dal mostro — si è radicato negli strati più profondi della psiche.

Questa nuova fase, che segue quella della biopolitic­a, è stata definita dal filosofo coreano Byung-Chul Han «psicopolit­ica». L’Io che transita attraverso la connession­e globale non ha più niente della potenza immaginifi­ca e multiforme espressa dal vecchio spot di Tony Kaye. Al contrario, è un ego imprigiona­to nella propria singolarit­à, rigido esecutore di autoimposi­zioni.

La riflession­e sulla Rete, oggi, procede su un filo sottile, sospeso tra lo «sciame digitale» di cui parla Byung-Chul Han e il «popolo» come frutto di un’attività di

storytelli­ng praticata dalle forze antisistem­a. Il mostro di cui narrava Clotilde Marghieri, invece, è ancora là, sempre pronto a interrogar­ci. E secondo lo psicologo Michal Kosinski, «il nostro smartphone è un vasto questionar­io psicologic­o che stiamo continuame­nte compilando, sia consciamen­te sia inconsciam­ente».

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