Corriere della Sera - La Lettura
Una Remington 22 solo per farmi vedere
Haiti Dany Laferrière difende il diritto di scrivere E dà 182 consigli agli aspiranti romanzieri
Nel 2013 Dany Laferrière è entrato all’Académie française ed è quindi un «immortale» ma ancora si ricorda di come si sentiva nel novembre 1985, quando uscì il suo primo libro (dal notevole titolo Come fare l’amore con un negro senza stancarsi). «Ne ho scritti molti altri, ma non c’è niente di paragonabile alla felicità di vedere il tuo primo libro, con una copertina gialla, nella vetrina di una libreria, tra Moravia e Hemingway. Non conosco piacere più intenso del sentire una ragazza che incrociandomi sussurra all’orecchio dell’amica: “È lo scrittore di cui ti parlavo”. Eh sì, sono proprio io».
Tanta voglia di affermazione sociale e di fare colpo sulle ragazze; poca «urgenza» e nessun «demone interiore», categorie spesso evocate come certificati di legittimità letteraria. In un caffè accanto alla Maison de la Radio dove ha appena partecipato a una trasmissione, un antiretorico, leggero e allo stesso tempo serissimo Laferrière parla a «la Lettura» di letteratura, dei 182 consigli agli aspiranti scrittori contenuti nel suo libro Diario di uno scrittore in pigiama (66thand2nd) e del perché tutti hanno diritto di provarci: «Qualsiasi storia è già stata raccontata, è vero, ma non da te».
Perché lei è uno scrittore in pigiama?
«Mi piace svegliarmi presto e restare nella sonnolenza, immerso nelle immagini di un sogno, spesso poetiche. Entro ed esco da questo stato onirico, mi succede di riaddormentarmi dopo avere scritto un po’ e di svegliarmi di nuovo, è una condizione magica. Ho scritto il libro dopo essere tornato a Montréal dal Giappone, avevo un po’ di insonnia. Mi svegliavo sempre alle 3 del mattino ma ho capito che se siamo insonni è perché non sappiamo scrivere o leggere, altrimenti basta alzarsi da letto e smetterla di guardare il soffitto. Ho usato quelle ore magnifiche, dalle 3 alle 7 del mattino».
Il libro comincia con il suo arrivo in Québec e l’acquisto di una macchina da scrivere Remington 22.
«Ad Haiti vivevo da mia madre e lei mi proteggeva anche dalla vita quotidiana: non dovevo cucinare o rifarmi il letto. A Montréal avevo una vita estremamente dura, in fabbrica, e ho capito che quella era la mia chance per essere scrittore, perché non si possono dare dei consigli nella vita senza averla conosciuta. E la vita non è necessariamente la condizione operaia, è il fatto di non esistere nello sguardo degli altri. Quando le persone mi incontravano non mi vedevano. Non vedevano altri che un nero, qualcuno che doveva venire da lontano e che non doveva passarsela tanto bene. La condizione operaia mi ha permesso di conoscere il lavoro fisico, di smetterla di lamentarmi e gemere sul Paese che ho lasciato, la nostalgia di un’altra epoca... Ho deciso di esistere nello sguardo degli altri e mi sono messo a scrivere».
Se non avesse avuto successo, se non avesse neppure trovato un editore, avrebbe continuato a scrivere?
«Mi vedo male ad andare in giro con il mio manoscritto a mendicare la pubblicazione... Scrivo precisamente per non mendicare. E per non chiedere niente a nessuno».
Da principiante non ha mai sentito l’ansia di essere «fuori dal giro»?
«Già agli inizi non andavo mai nei festival, nei saloni del libro, non avevo voglia di conoscere l’ambiente, come si dice. L’ambiente lo conoscevo benissimo perché da lettore avevo rapporti estremamente stretti con Bukowski, Hemingway, Miller, Tanizaki, Tolstoj, Proust. Grazie ai libri potevo discutere tête-àtête con Montaigne. Non ho mai creduto che conoscere qualcuno di conosciuto potesse rendermi a mia volta conosciuto. Per questo mi sorprendo quando i giovani scrittori mi mandano i loro manoscritti».
E che cosa risponde loro, come li tratta?
«Ascoltate, dico, la prima qualità che uno scrittore deve avere è il coraggio. Il vostro manoscritto mandatelo a qualcuno che non vi farà falsi complimenti, perché è obbligato per mestiere a scegliere: un editore. Ma non chiedete aiuto a un altro scrittore, per adesso non posso fare niente per voi. Si fa letteratura per liberarsi di tutti i padri e le madri, non per cercarne un altro. Si scrive per diventare adulti e liberi. In fondo, questo libro l’ho scritto perché i giovani la smettano di scocciarmi la domenica sera telefonandomi per chiedermi consigli. Leggetevi il libro, ci ho messo tutto quel che ho da dire sull’argomento».
Divertente la figura dello scrittore mancato.
«Sì, quello che non ha avuto successo perché non ha conosciuto la persona giusta, oppure perché quel che scrive è scomodo, fa paura, è un bomba. Oppure qualcuno gli ha rubato l’idea e così è il suo libro che hanno pubblicato, ma sotto un altro nome».
Trovare una storia originale è decisivo?
«Non è quello il punto. Conta di più lo sguardo. Quando si è un po’ depressi si pensa che tutto sia già stato detto e ogni tema già affrontato, Jean ama Marie e Marie ama Pierre e Pierre ama Christine ma Christine è morta. Questa è Andromaca. Certo, tutti i temi migliori, l’amore e la morte, sono stati già usati, e le lettere dell’alfabeto sono sempre quelle. Ma voi non li avete ancora utilizzati! Il punto non è la brillantezza della dimostrazione né l’originalità del tema ma semplicemente l’umiltà di credersi singolari. Normalmente quando ci si sente unici è per megalomania ma esiste anche un’umiltà di credersi singolari. Quando non si ha questa umiltà, si finisce per fare copie degli altri. Invece un artista è una mente ottusa, qualcuno con uno spirito ristretto, che va in profondità, all’opposto dell’erudito che ha uno sguardo largo. Bisogna accettare di essere limitati, di suonare la propria piccola musica e affidarsi all’orecchio altrui. I libri arrivano perché ci sono dei lettori che li reclamano in silenzio nella loro stanza».
In Italia spesso prendiamo in giro la mania di essere scrittori, tutti che vogliono scrivere e nessuno che legge. Lei che cosa ne pensa?
«Che è sbagliato fare ironia su chi vuole scrivere, è un gioco pacifico che permette a Agatha Christie di calarsi in un mondo pieno di crimini senza andare mai in prigione. Chi è tentato dallo scrivere non fa niente di male, e poi non si può mai sapere. C’è chi diventa un ottimo scrittore al terzo o quarto libro. Molti recensori nei blog sono di una cattiveria inaudita ma se avessero scritto anche solo un racconto sarebbero meno inutilmente feroci. Il tentativo di creare fa onore agli uomini. È un’attività di grande potenza che merita maggiore indulgenza. E infine, i cattivi libri non fanno male a nessuno, basta non occuparsene. Ma tanti preferiscono spendere energie per demolire un libro poco riuscito perché in quel modo si sentono superiori. Io invece penso che un brutto libro riguardi solo chi l’ha scritto, un bel libro riguarda tutti».