Corriere della Sera - La Lettura
Niente palizzate, il passato batte il presente
Dario Voltolini mescola meditazione e ricordo, luoghi solidi e liquidi
Non si rende giustizia al nuovo lavoro di Dario Voltolini, Pacific Palisades, chiamandolo un romanzo in versi (se poi da questo dovesse venirgliene un danno commerciale è da imputare non al recensore ma ai tempi, che vedono il romanzo dappertutto; ma credo avesse messo in conto la cosa). È un poemetto, e non solo perché è scritto in versi: con molti illustri antecedenti novecenteschi. Generato dall’incontro fortuito tra un gruppo di parole — Pacific Palisades, una marina di Los Angeles dove una vecchia amica del narratore deve andare in viaggio, e dove andrà anche lui — e l’imma- gine in esse depositata che non ha nulla a che vedere con un luogo geografico ma con un luogo della mente e della vita: quel centro di noi dove incessantemente continuiamo a nascere, e cioè a essere vulnerabili, che è sempre di nuovo necessario recingere con palizzate precarie per guadagnarsi il diritto temporaneo di dire «io».
Mescolando meditazione e ricordo, Pacific Palisades è il luogo di frizione tra due spazi immaginari, quello solido (la città, Torino) e quello liquido che scorre fuori e dentro il soggetto lirico: il cugino impavido nuotatore che per esorcizzare l’ansia da grande si dà all’alcolismo (come anche una zia che trascina le sue giornate per bar e osterie; e come anche, si intuisce, il narratore stesso), il nonno che ingurgita una miscela di latte e anice per neutralizzare il veleno della fabbrica, il sangue versato in guerra che continua a ossessionare il padre. La terraferma è un’eccezione, un’illusione del mare.
Se l’io lirico fantastica di erigere palizzate è perché sa che si tratta di palizzate instabili, impossibili. Filtrano un po’, per un po’, fino a quando non vengono travolte. Il solido ha sempre la peggio con il liquido, il presente non ha potere su un passato che ritorna come e quando vuole, lo spa- zio interno non è altro che un luogo in cui far posto ai materiali più o meno violentemente depositati a riva dai marosi esterni. Se anche si chiude la finestra un piccolo pettirosso può venire a schiantarsi contro i vetri, e allora bisogna uscire fuori a seppellirlo, o meglio a nasconderlo sotto le foglie, agonizzante, abbandonandolo a un dolore impossibile da immaginare (la scena più bella del poemetto). L’io è un cerchio contro la morte che viene sempre violato.
Anche lo spazio interno può però restituire al fuori — alla lingua — i suoi detriti. Pacific Palisades è la traccia scritta di quest’impari restituzione. Restituzione che non è un’imposizione, non comporta una trama, un ordine, come invece il romanzo. Sequenza di scene discontinue scandite in lasse di lunghezza variabile, è un tentativo di adattarsi a una relazione tra io e mondo in cui l’unica continuità possibile è nell’accettazione dell’impermanenza dei corpi, dei luoghi, delle memorie, che scelgono loro casualmente, capricciosamente come manifestarsi. Andrebbe letto in uno stato un po’ crepuscolare — al risveglio, a notte fonda quando si combatte col sonno, magari un po’ bevuti; o ascoltato a teatro, come già avvenuto al Macro di Roma (voce di Alessandro Baricco, musica di Nicola Tescari).