Corriere della Sera - La Lettura
L’umorismo non salva, la vita ti spezza Houellebecq è più forte a teatro
Èraro per uno spettatore di cose teatrali imbattersi in una commedia i cui protagonisti siano uomini di scienza. Ma ecco, nell’autunno del 2017, che Copenaghen dell’inglese Michael Frayn riprende per la terza volta il suo cammino, cominciato in Italia nel 1999 a Udine; ed ecco, trasformato per la scena, Le particelle elementari, opera prima del francese Michel Houellebecq.
La coincidenza diventa flagrante quando scopriamo che il romanzo si apre parlando dei due protagonisti della commedia, il fisico danese Bohr e il fisico tedesco Heisenberg. Più raro ancora, e più interessante, che le opere siano venute alla luce nello stesso anno, il 1998. Non ha, questa data, qualcosa di speciale? Sì, ce l’ha. Siamo alla fine di un secolo. Siamo nell’anno che è prossimo ad annunciarne uno nuovo, un nuovo secolo, una nuova era. Quale il sentimento degli autori di fronte al tema (e implicitamente alla data) che vanno trattando? In generale, l’inglese Frayn guarda all’indietro, ciò che gli interessa è la storia, la possibile analogia tra il concetto di storia e ciò che la fisica quantistica può dirci del- l’uomo. Al contrario, il francese Houellebecq che la storia, almeno la sua storia, quella della sua generazione, ce l’ha conficcata nella carne, ad essa guarda per guardare nel futuro.
È di ciò che verrà che Le particelle elementari ci parla. In questo senso, vieppiù notevole che ad essersi impadronito del romanzo di Houellebecq sia un uomo giovane. Julien Gosselin, che aveva al suo attivo tra l’altro una messa in scena di Genova 01 di Fausto Paravidino, è nato nel 1987 e dico subito che il suo spettacolo, così profondamente francese, ha analogie di potenza non lontane da quelle di un suo quasi coetaneo, Xavier Dolan: canadese ma, come lui, vissuto in un’analoga temperie culturale. In Italia, nella sua modestia; in Inghilterra, nella sua rigorosa fedeltà alla tradizione; o in Germania, nella sua sofisticata rudezza, uno spettacolo come quello di Gosselin sarebbe impensabile. Cosa ha di così francese — francese, intendo, nella sua contemporaneità? Viene subito in mente un altro regista giovane, Vincent Macaigne — che ha dieci anni di più. Macaigne, prima di Gosselin, è stato libero, inventivo, grandioso, fedele, infedele. Così è, rispetto a Houellebecq, il regista che ha presentato il suo spettacolo come conclusione ideale (nella programmazione, che effettualmente sarà al 2 dicembre) di RomaEuropa festival, quest’anno particolarmente brillante, eccellente negli spettacoli di danza. Gosselin, in un’intervista, sostiene che Romeo Castellucci «ha liberato il teatro europeo dalla vecchia ideologia che vede nell’attore l’elemento centrale dell’azione scenica». (Noto, a margine, che non è proprio così. Così è per un giovane francese. Castellucci agli occhi di uno spettatore francese trenta o quarantenne tale può/deve apparire. Ma egli inventa ed elabora in modo maturo, ossia con gli strumenti materiali che Simone Carella, Memè Perlini e Giuliano Vasilicò — quel Vasilicò che tanto successo ebbe proprio in Francia — non avevano e si fece in modo che mai avessero).
Nella stessa intervista, Gosselin prosegue chiarendo: «Il mio teatro è plastico, è un concerto, è un’installazio-