Corriere della Sera - La Lettura
È l’inventore della realtà Così porto in scena il genio
Michele Santeramo racconta la sfida: lui è l’unico che può risolvere il mistero del passaggio tra la vita e la morte. «Anche se il percorso verso la conoscenza mi sembra più importante del risultato stesso»
«La vita di Leonardo non aspettava certo me per essere raccontata. Potete trovare dappertutto date, accadimenti, curiosità, opere. Perché la realtà è dappertutto. Ma non è tutto. Per questo nasce uno come Leonardo: perché è necessario che qualcuno la inventi, la realtà». Come fa Michele Santeramo, drammaturgo pugliese autore di Leonardo. L’opera nascosta, nuovo spettacolo di cui è anche interprete e regista, che debutterà in prima nazionale giovedì 30 novembre al Teatro Era di Pontedera (Pisa).
Spiega di aver scelto Leonardo come protagonista del testo «perché è uno dei pochi personaggi che, per tutto il suo genio, può risolvere, o almeno provarci, il più grande caso irrisolto che riguarda l’essere umano: il passaggio tra la vita e la morte». Gli viene in mente di provarci, prosegue Santeramo, «mentre guarda una battaglia nella quale un esercito usa le armi che lui ha inventato. Le sue opere diventano così un percorso di studio e il tempo nel quale vive il contesto in cui far attecchire la sua curiosità, per inventare un’altra realtà, che si specchi nell’arte e da quella prenda nuova coscienza». Inventare un’altra realtà: è questo che fa un drammaturgo? Riflette: «Troppo spesso scambiamo le storie vere con quelle credibili. Anzi, la credibilità delle storie è spesso legata al fatto che siano accadute veramente. Ma se così fosse — se bastasse che un fatto sia accaduto per descrivere la realtà —, allora la realtà sarebbe immutabile, non sarebbe mai messa in discussione, e le cose sarebbero semplicemente quello che sono. Se non si potesse “tradire” la realtà inventandone una plausibile non ci sarebbe scoperta, né invenzione, né arte. Preferisco pensare che, come scrive Calvino nel Barone rampante, “le storie, raccontandole, da vere diventano inventate e da inventate, vere”. Come i sogni, che non esistono nella realtà ma che una volta sognati, eccoli lì palpitanti, a farci ridere e spaventare». Aggiunge: «Quando scrivo i miei testi evito di confrontarmi con qualcosa che conosco già, preferisco affrontare temi che possano insegnarmi cose nuove. La scrittura è lo strumento con cui poi restituisco quello che ho imparato. Un racconto, una storia a cui lo spettatore, spero, possa affezionarsi, e nei cui personaggi, come sosteneva Eduardo De Filippo, possa riconoscersi».
In scena, Santeramo dialoga coi disegni di Cristina Gardumi, primi piani dei personaggi che Leonardo incontra. «Un’umanità tutta inventata, tranne La Gioconda che Cristina ha reinterpretato». Ride: «Spero che le sue opere abbiano la fortuna del Salvator Mundi battuto dieci giorni fa per 450 milioni di dollari, 380 milioni di euro». Quando ha deciso che, da grande, avrebbe fatto il drammaturgo? «Sono nato a Terlizzi, in provincia di Bari, un piccolo centro che non offriva molte possibilità. Eppure “sentivo” che doveva esserci di più. Finché dai libri non ho conosciuto Gennaro de Gemmis, morto suicida dopo aver dato vita alla più grande biblioteca della Puglia, oggi custodita nella Chiesa di Santa Teresa dei Maschi, nel centro storico di Bari. L’incontro con de Gemmis mi ha permesso di specchiarmi nella possibilità della sua storia, di sentirmi un po’ più a casa. Sono stato fortunato perché lo spettacolo che poi scrissi su di lui ( Nobili e porci libri. Fogli nuovi per don Gennaro de Gemmis) fu accolto molto bene e mi permise di continuare a scrivere, affinandomi». Confessa, divertito: «Quando mi capita di riprendere la messinscena in una nuova città, mi rivolgo idealmente a lui e lo ringrazio. A Genna’, gli dico, siamo arrivati anche a Bologna».
Affacciarsi sul mondo della scrittura per il teatro non è stato facile, non da subito almeno. Ricorda: «Quando ho spiegato ai miei il percorso che avrei voluto intraprendere, inizialmente non mi hanno preso sul serio. Poi hanno provato a distogliermi dal progetto con un argomento molto efficace: non ti diamo più una lira. Non mi sono spaventato e ho continuato per la mia strada. Oggi so che erano solo preoccupati. Quando hanno visto che, nonostante tutto, me la cavavo e riuscivo a sopravvivere, hanno smesso di essere ostili. Vengono a vedermi in teatro, sono molto orgogliosi di me, di quello che faccio»
Di cosa si occupa quando la scrittura non la impegna? «Mi dedico alla costante osservazione del paesaggio. Quel paesaggio che Eugenio Turri (autore di Il paesaggio come teatro. Dal territorio vissuto al territorio rappresentato, Marsilio) definisce come l’esito della relazione tra territorio e abitanti, e che quindi non è mai cartolina ma movimento. Un movimento che, filtrato attraverso le emozioni, da unico diventa universale». Si spiega meglio citando La rivincita, «uno spettacolo che ho scritto qualche anno fa: parla di due contadini pugliesi, due fratelli, un testo solo apparentemente comico. In Romania lo hanno messo in scena come una favola, in Francia è diventato un testo militante, politico. Le emozioni erano le stesse, è lo sguardo che lo ha fatto diventare altro». Il libro di cui non potrebbe fare a meno? Non ha esitazioni: « Il barone rampante di Calvino, il mio riferimento assoluto: da vent’anni ne tengo una copia sul comodino. Mai la stessa. Leggo il libro, lo regalo, ne compro uno nuovo». Ama il cinema, aggiunge, e la sua capacità di essere «così trasversale da poter arrivare ai sentimenti delle persone in maniera diretta. L’equivalente cinematografico del Barone rampante è per me Il grande Lebowski. Entrambi sono personaggi che vivono fuori dal mondo, un po’ come il protagonista di un altro mio testo, Il Nullafacente. Quando scopre che la moglie è nella fase terminale di una malattia feroce sceglie di riappropriarsi del suo tempo per condividerlo con lei. Essere lì ed esserci pienamente, tralasciando ogni altra regola del mondo, diventa la sola cosa che conta». Nel Nullafacente, diretto da Roberto Bacci, Santeramo ha debuttato come attore e non come narratore. «È stata un’esperienza bellissima — racconta —, Roberto vedeva solo me in quel ruolo perché avevo lavorato al testo per sei anni, conoscevo ogni sfumatura del personaggio. Inizialmente ero titubante, oggi gli sono grato: ho potuto guardare il testo da un altro punto di vista, quello dell’interprete». Un’ultima domanda su Leonardo: che cosa l’ha affascinata di più del grande genio? «Mi è sembrato un uomo che godesse dello studio quotidiano, un uomo per il quale l’obiettivo fosse più il percorso da fare per arrivare a un risultato, che non il risultato in sé».