Corriere della Sera - La Lettura
Emma e Anna vittime della noia
Basta accostare le parole «amore e tradimento» perché sulla scena dell’immaginario appaiano due figure mitiche: Madame Bovary e Anna Karenina. I loro nomi corrispondono a due classici della letteratura, l’uno scritto da Flaubert nel 1857, l’altro da Tolstoj nel 1875, in piena epoca romantica, quando il binomio amore-morte siglava, come un inesorabile destino, ogni trasgressione femminile. Da sempre l’adulterio comportava una fine tragica soprattutto per lei, essendo quello maschile un naturale comportamento del «maschio cacciatore».
Ma è significativo che entrambi i romanzi, benché intitolati al femminile, esordiscano con due figure maschili: Charles, marito di Emma, e Stiva, cognato di Anna. La loro posizione mostra il divario che separa il tradito dal traditore, chi sopporta passivamente rispetto a chi agisce attivamente. Il primo viene presentato da Flaubert come un uomo buono ma noioso, simile a «un dolce previsto da tempo, dopo la monotonia del pranzo». È il classico marito borghese, impegnato a raggiungere il successo professionale, incapace di cogliere le insofferenze della moglie, cieco per quieto vivere ai ripetuti tradimenti di lei. Emma, sperando in una crisi risolutiva, vorrebbe essere scoperta, accusata, punita, ma lui non reagisce, non vede l’impulso oscuro che sospinge il tradimento seriale verso la morte.
Al pavido Charles di Flaubert si contrappone, nel romanzo di Tolstoj, l’arrogante, aristocratico Stiva. Benché la moglie Dolly, avendo scoperto il tradimento, minacci di lasciarlo, lui non si scompone, convinto che la ragione sia dalla sua parte: «Una donna estenuata, invecchiata, ormai brutta e senza alcuna attrattiva, una donna semplice, che era unicamente una brava madre di famiglia, per senso di giustizia avrebbe dovuto essere condiscendente. E invece era proprio il contrario». Stiva non si sente in colpa perché la vitalità del suo corpo lo autorizza all’infedeltà, mentre la felicità raggiunta premia la sua audacia.
Nonostante i romanzi esordiscano con due personaggi maschili, la trama si snoda intorno a due mogli infedeli: Emma e Anna. L’una tradisce in modo coatto per scuotere il marito e punire se stessa; l’altra, sedotta dall’irresistibile Vronskij, per una passione erotica che solo l’amore materno può contrastare. L’esito sarà per entrambe il suicidio ma lo svolgimento narrativo è diverso in quanto, come avverte Tolstoj: «Tutte le famiglie felici so- no simili, ma ogni famiglia infelice è infelice a modo suo». Ed è indubbio che il tradimento provochi comunque l’infelicità di qualcuno, talvolta di tutti. Perché allora appare così frequente, persino inevitabile? Perché ogni patto contiene in sé la possibilità di essere infranto, altrimenti non avrebbe neppure bisogno di essere stipulato. In questo senso ciascuno tradisce innanzitutto se stesso.
Ma in un’epoca che prevede lo scioglimento di ogni vincolo coniugale, che senso riveste l’adulterio? Innanzitutto l’amore clandestino, alimentato dalla colpa ed esaltato dal segreto, spezza la monotonia della vita, contraddice l’indifferenza e la noncuranza, dà la sensazione di essere finalmente «qualcuno per qualcuno». E forse è proprio questo che vanno cercando gli amanti infedeli: occhi che li guardino in modo nuovo, ascolti di una più lusinghiera narrazione di sé, possibilità di ricominciare fermando le lancette del tempo. Specchiandosi nell’altro, si aspettano di ricevere un’immagine narcisistica adeguata a quanto sentono di essere diventati, una identità più vera, confermata dalla felicità che premia il desiderio realizzato. E poi? Il seguito spetta al romanziere che è in noi.