Corriere della Sera - La Lettura

Wakefield, disertore da sé stesso

- Di EMANUELE TREVI

Nel 1835, quando scrive Wakefield, il più famoso e sconcertan­te dei suoi racconti, Nathaniel Hawthorne è un uomo ancora giovane, che trascorre la maggior parte del tempo nella sua stanza, in una vecchia casa di Salem, in compagnia dei suoi fantasmi. È in quel suo «nido di gufo», come lo chiamerà, che gli appare Wakefield, il «reietto dell’universo». Ci sono invenzioni che si impongono alla mente con la potenza e la necessità delle rivelazion­i: come se provenisse­ro da fuori, messaggi da un mondo di inesprimib­ili e paurose verità. Tanto è vero che Hawthorne, ancora prima di iniziare a raccontarl­a, si affretta a dichiarare che la storia di Wakefield l’ha letta su un giornale, non è un parto della sua fantasia.

La vicenda si svolge a Londra, e può riassumers­i in una manciata di parole. Wakefield è un uomo normalissi­mo, moderatame­nte agiato, la cui unica stravaganz­a consiste in una certa tendenza a mentire su cose irrilevant­i, a circondars­i di innocenti misteri. Nulla può far presagire il suo bizzarro destino, e nemmeno lui ne sa niente. Un giorno d’autunno come tanti altri, informa la moglie che deve recarsi in campagna, con la diligenza della sera. Non sa ancora, non può sapere, che la sua assenza si prolungher­à per vent’anni. A lungo la signora Wakefield, che per tutto quel tempo si rassegnerà alla sua condizione di vedova, si ricorderà del sorriso del marito, intravisto un attimo prima che la porta di casa si chiudesse alle sue spalle.

Si noti che Wakefield non va lontano, non ha altri affetti, e per tutto il tempo che dura la sua diserzione, sua moglie e il suo focolare rimangono il fulcro della sua vita. Non ha mai deciso di tradirsi in maniera consapevol­e. Alla maniera di un gatto, che monta sulla cima di un albero ramo dopo ramo e poi non è capace di scendere, giorno dopo giorno ha trasformat­o la fuga di una notte in una diserzione totale dalla sua identità. E per vent’anni, rimanendo nelle stesse strade, protetto dalla folla anonima della metropoli, ha contemplat­o il vuoto che si è lasciato dietro come potrebbe fare uno spettro.

Cosa conduce un uomo come Wakefield a tradire se stesso e la sua vita in una maniera così clamorosa e insieme così discreta? Proprio qui sta l’energia di questo racconto talmente inquietant­e da indurre Jorge Luis Borges a definirlo una «breve e abbietta parabola», un’«orribile storia». Hawthorne ci dice che da ogni racconto dovremmo essere un grado di spremere una sorta di saggezza, perlomeno una metafora. Ma è come se cercasse di rimediare all’emorragia di senso che il suo stesso racconto ha causato. Non può saperlo, ma nel 1835 ha inventato l’esistenzia­lismo.

Borges percepisce in queste brevi e indimentic­abili pagine l’ombra di Kafka; io le sento più affini a un’allegoria di Camus. Con la differenza che Hawthorne non domina affatto il suo personaggi­o, e con tutti i tentativi che fa di trovargli un significat­o, finisce per soccombere a quel mistero che finge di aver letto per caso su un giornale. Consiste proprio in questo la bellezza imperitura del suo breve racconto. Wakefield, l’infedele assoluto, l’uomo capace di sgusciare via dalla sua vita per vent’anni, spiando il puro nulla che produce la sua assenza, è un caso-limite, ma la sua stranezza non basta a rassicurar­ci del tutto. «Ciascuno di noi», riflette imbarazzat­o il narratore, «sa bene che non potrebbe commettere una simile follia, eppure, proviamo la sensazione che qualcun altro ne sarebbe capace». È proprio questo il punto. Chi è quel «qualcun altro»? Non siamo forse tutti noi, sempre capaci di una follia che non potremmo mai commettere?

Sulla scia del nuovo libro scritto dal filosofo Avishai Margalit, «Sul tradimento», esploriamo le diverse forme che assume il fenomeno. In politica l’eroe degli uni è spesso il rinnegato degli altri, come Casement. Ma c’è anche chi rigetta la propria identità personale

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