Corriere della Sera - La Lettura
Scegliere la verità, non Platone
Sembra che la prima formulazione debba essere fatta risalire all’Etica nicomachea di Aristotele, là dove il filosofo scrive che è meglio «non tenere conto degli affetti personali quando si tratta della salvezza della verità». Ne consegue che, anche se entrambi — gli amici che sostengono una teoria che riteniamo erronea e ciò che noi invece riteniamo essere la verità — ci sono cari, «è cosa sacra dare la preferenza alla verità» (1096 a, 1315). Ma il succo della sentenza aristotelica è già in Platone, quando fa dire a Socrate che i suoi interlocutori dovevano preoccuparsi meno di lui, e più della verità ( Fedone, 91 b-c ). Nella versione latina, risalente all’Opus maius di Roger Bacon, la massima assume la forma con la quale ritornerà frequentemente nella letteratura occidentale, fino al Don Chisciotte di Miguel de Cervantes e oltre: Amicus Plato sed magis amica veritas.
Curiose e istruttive sono poi alcune varianti, le quali tuttavia confermano, da altra angolatura, il significato del detto. Dal solo apparente rovesciamento reperibile nella critica di Cicerone ai Pitagorici («preferisco sbagliare con Platone, piuttosto che sostenere cose vere con costoro», Tusculanae Disputationes, I, XVIII), fino al paradosso enunciato dal logico Alfred Tarsky: «Platone è un nemico, ma nemica più grande è la falsità».
Al di là di dettagli non tutti irrilevanti, il significato di quello che è poi diventato un proverbio è chiaro. Per quanto possa «esserci caro», nessun rapporto di amicizia dovrà essere per noi più importante della verità. Conducendo il ragionamento alle sue coerenti conseguenze se ne deduce che vi è un unico caso in cui è ammesso il tradimento di un amico, ed è quando il restare a lui fedeli implichi la rinuncia a perseguire la verità.
Ma, se analizzata meno curiosamente, la sentenza dice qualcosa che merita di essere approfondito sia per quanto riguarda l’amicizia, che per quanto riguarda il tradimento. Sul primo aspetto, essa pone evidentemente un limite invalicabile alla fedeltà che è connessa indissolubilmente alla relazione con l’amico. Con l’aggiunta che, non essendo né facile né intuitivo — ed essendo, anzi, massimamente discrezionale — intendere in cosa consista la verità, il margine entro cui vale il legame inscritto nell’amicizia rischia di assottigliarsi fino quasi a scomparire. Basterà invocare il riferimento alla verità, per potersi considera- re esonerati dall’obbligo morale insito nella relazione con l’amico. Più interessante, e denso di implicazioni, il secondo aspetto. Sia pure attraverso una mossa logica che potrebbe apparire spericolata, se non proprio insostenibile, la massima pone a confronto, e dunque colloca sullo stesso piano, due «cose sacre» (per usare l’espressione aristotelica), quali sono l’amicizia e la verità, fra le quali si indica la necessità di una scelta. In questa prospettiva, si può dire che non si dà mai un tradimento «assoluto», perché esso comporta immediatamente la conferma della fedeltà a quella «cosa sacra» che si è scelto di privilegiare.
Lo stesso gesto col quale tradisco — la fedeltà ad un amico — è il gesto col quale confermo la mia fedeltà — alla verità. O viceversa. Non si è mai completamente fedeli o infedeli, perché la conferma della fedeltà è in se stessa un tradimento. La conseguenza di questa semplice constatazione è dirompente. Siamo tutti traditori. L’atto col quale ribadiamo la nostra fedeltà al vincolo di amicizia, o all’opposto dichiariamo la nostra opzione per la verità, è intrinsecamente e ineliminabilmente intrecciato con la perpetrazione di un tradimento.