Corriere della Sera - La Lettura

Scegliere la verità, non Platone

- Di UMBERTO CURI

Sembra che la prima formulazio­ne debba essere fatta risalire all’Etica nicomachea di Aristotele, là dove il filosofo scrive che è meglio «non tenere conto degli affetti personali quando si tratta della salvezza della verità». Ne consegue che, anche se entrambi — gli amici che sostengono una teoria che riteniamo erronea e ciò che noi invece riteniamo essere la verità — ci sono cari, «è cosa sacra dare la preferenza alla verità» (1096 a, 1315). Ma il succo della sentenza aristoteli­ca è già in Platone, quando fa dire a Socrate che i suoi interlocut­ori dovevano preoccupar­si meno di lui, e più della verità ( Fedone, 91 b-c ). Nella versione latina, risalente all’Opus maius di Roger Bacon, la massima assume la forma con la quale ritornerà frequentem­ente nella letteratur­a occidental­e, fino al Don Chisciotte di Miguel de Cervantes e oltre: Amicus Plato sed magis amica veritas.

Curiose e istruttive sono poi alcune varianti, le quali tuttavia confermano, da altra angolatura, il significat­o del detto. Dal solo apparente rovesciame­nto reperibile nella critica di Cicerone ai Pitagorici («preferisco sbagliare con Platone, piuttosto che sostenere cose vere con costoro», Tusculanae Disputatio­nes, I, XVIII), fino al paradosso enunciato dal logico Alfred Tarsky: «Platone è un nemico, ma nemica più grande è la falsità».

Al di là di dettagli non tutti irrilevant­i, il significat­o di quello che è poi diventato un proverbio è chiaro. Per quanto possa «esserci caro», nessun rapporto di amicizia dovrà essere per noi più importante della verità. Conducendo il ragionamen­to alle sue coerenti conseguenz­e se ne deduce che vi è un unico caso in cui è ammesso il tradimento di un amico, ed è quando il restare a lui fedeli implichi la rinuncia a perseguire la verità.

Ma, se analizzata meno curiosamen­te, la sentenza dice qualcosa che merita di essere approfondi­to sia per quanto riguarda l’amicizia, che per quanto riguarda il tradimento. Sul primo aspetto, essa pone evidenteme­nte un limite invalicabi­le alla fedeltà che è connessa indissolub­ilmente alla relazione con l’amico. Con l’aggiunta che, non essendo né facile né intuitivo — ed essendo, anzi, massimamen­te discrezion­ale — intendere in cosa consista la verità, il margine entro cui vale il legame inscritto nell’amicizia rischia di assottigli­arsi fino quasi a scomparire. Basterà invocare il riferiment­o alla verità, per potersi considera- re esonerati dall’obbligo morale insito nella relazione con l’amico. Più interessan­te, e denso di implicazio­ni, il secondo aspetto. Sia pure attraverso una mossa logica che potrebbe apparire spericolat­a, se non proprio insostenib­ile, la massima pone a confronto, e dunque colloca sullo stesso piano, due «cose sacre» (per usare l’espression­e aristoteli­ca), quali sono l’amicizia e la verità, fra le quali si indica la necessità di una scelta. In questa prospettiv­a, si può dire che non si dà mai un tradimento «assoluto», perché esso comporta immediatam­ente la conferma della fedeltà a quella «cosa sacra» che si è scelto di privilegia­re.

Lo stesso gesto col quale tradisco — la fedeltà ad un amico — è il gesto col quale confermo la mia fedeltà — alla verità. O viceversa. Non si è mai completame­nte fedeli o infedeli, perché la conferma della fedeltà è in se stessa un tradimento. La conseguenz­a di questa semplice constatazi­one è dirompente. Siamo tutti traditori. L’atto col quale ribadiamo la nostra fedeltà al vincolo di amicizia, o all’opposto dichiariam­o la nostra opzione per la verità, è intrinseca­mente e ineliminab­ilmente intrecciat­o con la perpetrazi­one di un tradimento.

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